C’è superfluo e superfluo

di Cesare Cases

“L’Indice” non è il premio Calvino, ma ha con esso indubbi rapporti di paternità, molti collaboratori della rivista annoverandosi tra i fondatori del premio. Si permetta dunque a chi rappresenta il genitore di rispondere al posto del figlio, che non si sa bene dove stia di casa, specialmente nei mesi estivi, all’articolo di Oreste Pivetta Oggetti superflui e cattivi maestri (“l’Unità”, 6.7.1992), diretto contro l’assegnazione del premio del 1990 a Enzo Fileno Carabba, il cui libro Jakob Pesciolini è stato ora pubblicato da Einaudi (cfr. la recensione di Vincenzo Consolo nell’Indice” di luglio). Né sugli oggetti superflui, né sui cattivi maestri Pivetta sembra avere le idee chiare. Comincia assai bene, ma senza molta originalità, con una filippica contro la fantasmagoria della società dei consumi, che riempie di superfluo (“toyota, cherokee, harley-davidson, telefonini, antenne…”) tutte le strade e anche i corpi umani (“vitamine, grassi, tisane dimagranti…”). Poi però si accorge che il superfluo non è tanto superfluo, perché è funzionale al rimbecillimento della società e alla sua riproduzione, sicché si cerca di distruggere tutto quanto ne minacci l’espansione bollandolo come superfluo, per esempio l’eguaglianza, “ridotta al rango di una bandierina che neppure sotto Natale vale la pena di sventolare”. Dunque c’è il superfluo del telefonino e quello dell’eguaglianza. Per Pivetta sembra che il secondo sia solo la prosecuzione del primo, mentre in realtà ne è l’opposto. L’eguaglianza è dichiarata superflua perché il telefonino sia proclamato indispensabile. Per questo va favorita l’arte, che afferma il diritto del superfluo non funzionale, che anticipa l’utopia. Siccome non è sempre facile distinguere tra superfluo artistico e funzionale, la lotta contro il secondo finisce per coinvolgere il primo. Lo stesso Pivetta ricorda il dramma dell’architettura moderna, che dopo aver dichiarato con Loos la guerra all’ornamento si ritrovò complice degli scatoloni. Ma per Pivetta come per Platone e per Stalin l’arte è accettabile solo se è funzionale. Perciò Carabba, che ha scritto un romanzo del tutto fantastico, non è da premiare, nonostante il suo entusiasmo giovanile traviato dai cattivi maestri e dai cattivi premiatori. Innanzi tutto non è vero che quelle di Carabba siano solo stramberie. Pivetta, cui sta a cuore la mercificazione del mondo, dovrebbe riconoscere che così di passaggio, con la mano sinistra, Carabba la individua meglio che tutte le sue enumerazioni di macchine e di merci. Già il primario che prende in cura il bambino Jakobino, “un uomo con gli occhi franchi che giocava bene a whist… intendeva utilizzarlo per la compravendita degli organi usati”, dando così al bambino privo di genitori “la possibilità di integrarsi, di non essere un emarginato”. Quanto alle automobili, “gli erano attorno in un itinerario doloroso: un esercito di schiavi gremiva la nazione e allagava le piazze”. Questo lo vediamo o leggiamo ogni momento, ma qui è detto con la forza della parola letteraria. Per non parlare dell’impresa principale di Jakob, la trasformazione dell’Antartide in un enorme gelato al limone, che può essere intesa come un’allegoria della mercificazione del mondo. Può, perché l’arte, specie fantastica, non è mai riducibile a una sola interpretazione. Detto fra di noi (che non ci senta il mio mandante, il premio Calvino), questa mi sembra la migliore indicazione finora uscita dal premio, tant’è vero che fu patrocinata fin dall’inizio da uno scrittore, Consolo, che non appartiene certo alla parrocchia dei surrealisti in odore di gratuità. Invece Pivetta sembra confondere il premio Calvino, nato proprio per distinguersi dagli altri, con questi altri. L’autore, rampollo di illustre famiglia, montatosi la testa per influsso dei cattivi maestri (chi siano poi questi maestri, Pivetta non lo dice), si sarebbe presentato al premio raccomandatissimo. Qui c’è rischio di offendersi, e se fossi il premio Calvino ne avrei il diritto. Ma come? Si fa un premio in cui i dattiloscritti in prima istanza sono letti da una commissione di lettori non appartenenti all’establishment e che dell’autore conoscono solo il nome? E vero che ci fu un piccolo, ma importante editore di nome Carabba, ma ce lo ricordiamo solo noi vecchi, i giovani conoscono solo Berlusconi, come mostrano le statistiche televisive. E non è vero che la pubblicazione da Einaudi “sta nelle regole del premio”. L’autore è libero di pubblicare da chi vuole, due vincitori erano usciti finora da Marsilio, uno solo da Einaudi. Tutto sbagliato. Ma Pivetta non era un nostro caro amico? Sì, e speriamo che torni ad esserlo, poiché il proverbio francese dice on n’est trahi que par les siens. Pivetta è un traditore, ma è pur sempre dei nostri e certo si ravvederà.

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