Un pesciolino di nome Jakob. Paradossi per un romanzo

di Paolo Di Stefano

Chi è Jakob Pesciolini? E’ forse un mutante, un extraterrestre. Oppure un pazzo scatenato, un eroe picaresco, oppure ancora un uomo del sottosuolo com’era il Guizzardi di Gianni Celati, oppure… Dico “forse” perché nel romanzo di Enzo Fileno Carabba, che prende il titolo dal nome del suo protagonista e che ha vinto l’anno scorso il Premio Calvino, non esistono certezze. Forse Jakob ha undici anni quando fugge di casa abbandonando i fratelli maggiori. Ma forse la sua fuga è una fuga nel sogno. Forse, durante la fuga, si inoltra nell’acqua e viene investito da un traghetto. Forse i pescatori, prendendolo per un grosso luccio, lo tirano a bordo salvandolo da una morte sicura. Anzi, da una morte probabile.

Ma, se nel romanzo di Carabba non c’è nulla di certo, non c’è neppure nulla di probabile, tale è il continuo zigzagare della narrazione verso soluzioni sempre inattese e prive di logica. È quindi ovvio che le due figure ricorrenti siano l’iperbole e il paradosso. Tutto viene ingigantito e deformato come se fossimo catapultati in un mondo enorme abitato da creature sproporzionate, oppure come se i personaggi, improvvisamente rimpiccioliti, si trovassero schiacciati da un paesaggio abnorme e pauroso come i giovani attori di “Tesoro, mi si sono ristretti i ragazzi”, sperduti nel giardino di casa divenuto labirintica giungla.

Dall’esagerazione nasce il paradosso. Esagerata e paradossale è la vicenda di Jakob sin dalla cornice del romanzo, in cui si racconta il suo patetico tentativo di suicidio: prima l’intenzione di lasciarsi precipitare da un elicottero, poi la decisione di rivolgersi a un killer che lo elimini, infine il ripensamento e la richiesta di un secondo killer che tolga di mezzo il primo. Paradossale è il desiderio di irrorare l’Antartide di succo di limone per farne una immensa granita. Paradossale e rocambolesca è la sua realizzazione.

Favola comica, dunque? Si potrebbe dire che siamo nella fiaba, almeno a guardare il tempo dilatato ed eterno in cui si svolge la vicenda, se la fiaba, come sappiamo, non avesse schemi ricorrenti e perciò prevedibili. Eppure, i personaggi sembrano personaggi di fiaba, ma i loro caratteri e le loro funzioni sono confusi ad arte. Lo stesso Jakob è un eroe che non conosce i limiti tra il bene e il male, a tratti dolcissimo e innocente, a tratti arrogante, volgare, violento. Adel, la sua compagna grassa, è piena di pietà per il suo debole partner, ma non manca di assumere qua e là un aspetto sinistro e una malcelata ambiguità, specie nei sentimenti che la legano a un membro della spedizione antartica, il pilota Udo. Sarà questa sua ambiguità a farne  una vittima di Jakob, che la farà affogare spingendola da una zattera. Ma sarà poi vero? Non si sa. Né sapremo se il pentimento di Jakob sia realmente sentito, umorale stralunato instabile com’è. E il comico? In realtà, c’è ben poco da ridere: come si può ridere di un personaggio che cerca ossessivamente di uscire dal mondo, perennemente assediato da dimensioni altre, spaesato e incapace di guidare la propria esistenza? Di riflettere sul senso della vita: le pagine migliori del romanzo sono, oltre al delirante monologo finale, le lettere che Jakob scrive in carcere dopo l’assassinio della sua benefattrice, la signora Vonvolveth. E’ come se Carabba volesse sperimentare una nuova via al grottesco, rifiutando, sulle orme del suo protagonista, ogni referente realistico e lasciando galoppare liberamente la propria fantasia. Ma è una fantasia tutta mentale, priva di appigli nel quotidiano.

Parodia, dunque, più che satira. Parodia del romanzo giallo, parodia del fiabesco e del fantascientifico, parodia dell’horror e del gotico: membra sparse e semoventi, spruzzi di sangue e ferite aperte, ributtante materia organica, insetti pelosi e gigantesche farfalle, elfi in agguato, onde altissime e nere pozze putrescenti sono immagini mentali che si materializzano di continuo. Parodia, anche, del fumetto, cui si richiamano le movenze da cartoon dei personaggi, l’agilità narrativa, molti dialoghi cosparsi di punti interrogativi e esclamativi, di puntini di sospensione, molte interiezioni: «crack!» «pum!», «blup, blop», eccetera. E poi c’è molto cinema, a cominciare dalla cornice, che ricorda «Ho affittato un killer» del finlandese Aki Kaurismaki. C’è, soprattutto, un accumularsi apparentemente disordinato di tante tessere letterarie e stilistiche alte e basse che si accorda bene con l’insieme. Ne deriva un senso di allucinazione, e di spaesamento, favorito dal continuo mutare del punto di vista e della voce narrante che alterna la terza e la prima persona. Un delirio e una vertigine che provengono anche dalla verticalità dei paesaggi frequentati. Un’ossessione verbalizzata nei continui presentimenti di morte, del resto quasi sempre smentiti dalle magiche facoltà di risurrezione dei personaggi, ma soprattutto in molti intercalari: «La felicità camminava sola», «Il giorno del riscatto era vicino».

Ciò detto, quel che stupisce è che il caos, in definitiva, è solo apparente e che i livelli testuali (dalla struttura allo stile) finiscono per interagire fra loro con coerenza. L’intenzione, attraverso un raffinato gioco, di fare piazza pulita e di ripartire dalle ceneri di tutte le tradizioni e di tutte le avanguardie è forse l’estremo paradosso di un romanzo che, al di là di eccessi a volte troppo autocompiaciuti, piace per l’indubbio coraggio da cui è mosso. Che è il coraggio stesso di Jakob Pesciolini. Il quale, per annientare la propria coscienza e insieme per verificarne la capacità di sopravvivenza, si concederà, a un esperimento spaziale che lo costringerà a ruotare per sempre nell’universo in compagnia di un pesciolino giallo a cui confidare le sue assurde peripezie.

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