di Alba Donati
Mancava davvero un’opera che ci disorientasse. Sono stati fatti molti nomi e riferimenti a proposito di Jakob Pesciolini – che ha vinto il premio Calvino opera prima nel ’91 –: Rabelais, Gadda, il Grass del Tamburo di latta e Queneau, e poi il fantastico, il cinema, i fiabesco noir, l’horror, il fumetto, il Bildungsroman. Forse Carabba parte da un luogo dove tutti questi generi sono uniti, li coglie prima della separazione. Certo, saper dire di cosa parla Jakob Pesciolini è un’impresa difficile: c’è anzitutto la fuga da un mondo innocente ma paradossale – di cui niente si sa se non che c’era una casa senza finestre su un’isolina in mezzo a un lago e tanti fratelli che un giorno non tornarono più – per scoprire il mondo. Qui iniziano le avventure, ma intanto il libro è già iniziato e nel prologo ci ha già anticipato il futuro. Jakob cercherà di farsi uccidere da un killer professionista, ci ripensa e assolda un secondo killer che uccida il primo. L’architettura del romanzo è complessa ma in fin dei conti sapere come va a finire è indifferente, come indifferente è sapere cosa concluderà Ingravallo, o cosa faccia Gonzalo. E’ piuttosto il linguaggio che ci guida in questa intricata foresta di eventi: è visivo, attivo, continuamente sottoposto – come ha scritto Loria – a una carica di “effetti speciali”. Carabba, nemico della metafora, vive a stretto contatto con la cosa, ce la descrive analiticamente dal dritto e dal rovescio: il risultato è la sorpresa continua, un senso di vertigine comica e crudele.