di Angelo Marchese
Vincitore del premio Calvino 1991 per opere inedite e prontamente pubblicato da Einaudi, Jacob Pesciolini è un romanzo «diverso», affatto lontano dal profluvio di narrativa d’indagine (storica, ideologica, intimistica, di costume…) che da anni ci affligge non meno della dichiarata e imperante Trivial-Literatur. L’autore, il ventiseienne fiorentino Enzo Fileno Carabba, ci presenta la vita di un misterioso Jacob Pesciolini, figura di scarsa o nulla consistenza «sociale», che a un certo punto della sua anomala esistenza è illuminato da una geniale trovata: irrorare di succo di limone l’Antartide per ricavarne una gigantesca granita e diventare il big mondiale di tale sorbetto, con prevedibili, immensi guadagni.
Un romanzo d’evasione, una fiaba, un divertissement comico, questo Jacob Pesciolini dell’esordiente Carabba? Nonostante una fitta trama di azioni, non si può parlare di romanzo d’intreccio o di avventura: la stessa spiritosa invenzione della megagranita copre solo la seconda metà del libro. Né Carabba mostra un particolare interesse per l’intrigo psicologico, per la costruzione complessa dei personaggi volta a indagarne il carattere, il mondo interiore, i valori. Solo il protagonista «si dichiara»: e non a caso soprattutto nella parte più strutturata del racconto: L’imprigionamento, dove il testo assume una forma diaristico-epistolare che consente la confessione, imitando ironicamente modelli e situazioni topiche della narrativa romantica (l’eroe recluso che scrive alla sua donna e scandaglia il proprio io più segreto).
Per capire lo spirito di questo estroso e tutt’altro che semplice romanzo sarà bene tracciarne uno schizzo veloce. Il primo capitolo (o «Prologo») ci immette in extremas res, a ridosso della conclusione; ci troviamo di fronte a una sorta di piccolo giallo, con la paradossale scena del ricchissimo Jacob Pesciolini che vorrebbe suicidarsi gettandosi nelle gelide acque di Fort Leyrs inbocca ai pescecani (preventivamente attirati dalla ghiotta offa di un maiale vivo…). Fallito l’ingegnoso tentativo, Jacob incarica una ditta specializzata di attuare il suo omicidiosuicidio, ma anche questo sofisticato piano va in fumo (lasciamo al lettore l’opportunità di provare personalmente il piacere «ermeneutico» del « come va a finire…).
La narrazione è dunque organizzata anastroficamente, o quasi; nel quinto e conclusivo capitolo (La fine) il derelitto Jacob pensa di ammazzarsi in modo degno della sua esagitata fantasia: chiudendosi in una capsula spaziale, con l’unica compagnia del pesciolino A.d. (Anno Domini), a cui il nostro personaggio si rivolge come al suo ultimo interlocutore per rivisitare definitivamente la propria esistenza, posta sotto il segno della morte e della violenza.
Fra il Prologo e la conclusione si colloca il racconto della vita di Jacob Pesciolini; e qui Carabba ricalca – forse con una parodia involontaria – un grande archetipo della narrazione classica, il Bildungsroman o «romanzo di formazione». Il piccolo Jacob, orfano di entrambi i genitori, vive in un’isola in mezzo a un lago, pressoché solo (i fratelli si allontanano spesso per andare a caccia), confortato dalla presenza di un pesciolino giallo di nome Otello. Un giorno, più solo che mai – i fratelli si sono dileguati – Jacob decide di lasciare la casa per affrontare l’avventura del mondo, giusto lo schema (di ascendenza folclorica) delle peripezie iniziatiche. Non deve sorprendere che l’eroe – «bambino solamente anagrafico, poiché non infantile» (V. Consolo) – non abbia alcuno statuto storico-sociale e sorga alla vita narrativa ex nihilo, come i protagonisti del racconto mitico-favoloso. Si è capito infatti che il modo inventivo dominante di Jacob Pesciolini è il fantastico, ancorché non gratuitamente disarticolato dal reale, nel quale s’incarna con effetti visionari e onirici di notevole forza poetica. Con l’avventuroso ingresso di Jacob nel cosiddetto consorzio civile, il racconto comincia a dipanarsi, non senza qualche difficoltà quando il giovane autore è costretto ad escogitare l’intrigo (l’incontro con la ricca filantropa Erika Vonvolveth, evidente figura pseudomaterna, destinata a un’orribile fine per mano del suo stesso protetto). Qualche eccesso di colore e di tono, qualche lungaggine, qualche allegorismo troppo esibito appesantiscono il ritmo della narrazione che si rianima allorché il protagonista incontra la florida Adele e se ne innamora.
Il resoconto della trama fin qui abbozzato non rende giustizia all’originale ispirazione di Carabba che, come ho detto, non è attratto dal mero racconto di avventura (anche quello straniante, «giallo» o «nero», che pure aleggia in queste pagine). Il gusto fantastico-visionario più genuino si rivela non tanto sul piano dell’intreccio, quanto piuttosto nella diffusa atmosfera allucinatoria che avvolge la realtà lungo tutto il romanzo. Si vedano due soli lacerti molto significativi:
Io mi sono guardato attorno. Occorreva prudenza. Grandi esseri solcavano l’aria in cerca di preda. Calavano fino a rasentare il suolo e per centinaia di metri volavano così, a un pelo da terra. Potevi vedere i loro occhi spalancati e tondi, accesi da un fulgore cattivo, analizzare attenti gli oggetti in movimento. Vedevi effettivamente la lunga bocca rosa chiudersi e aprirsi a vuoto, meccanicamente, con una cecità spaventevole.
Inorridivi – stai tranquilla che inorridivi – ai lenti movimenti del collo retrattile; alle mossette delle zampe quasi atrofizzate (p.94).
Occorreva prudenza. Grandi esseri solcavano l’aria in cerca di preda, Calavano fino a rasentare il suolo e per centinaia di metri volavano così, a centimetri da terra. Potevi vedere i loro occhi spalancati e tondi, accesi da un fulgore cattivo, analizzare gli oggetti in movimento. Vedevi effettivamente la lunga bocca rosa chiudersi e aprirsi a vuoto meccanicamente, con una cecità spaventevole. Inorridivi ai lenti movimenti del collo retrattile (p. 162).
Si tratta, evidentemente, dello stesso nucleo di immagini ossessionanti; nel primo caso, le sensazioni sono soggettive (il brano è tratto da una lettera di Jacob a Adel); nel secondo, invece, il referto è del narratore onnisciente, che tuttavia interpreta lo stato d’animo del protagonista. Questa animazione teratologica del Cosmo, questa latente e terribile aggressività delle cose è l’elemento più caratteristico del romanzo di Carabba. La tensione spasmodica del personaggio si dilata in una miriade di immagini o, meglio, di visioni fantasmatiche opprimenti e terrificanti, come quella degli «esseri predoni» in agguato. Ma fin dalla prima pagina si imposta il Leitmotiv animalesco nella metafora dei «vermi neri»: «Pareva che là sotto, ora, dei vermi neri scavassero le loro gallerie nell’oceano». Sulla stessa isotopia zoomorfico-allucinatoria si pone un altro stupendo frammento, quello delle farfalle-furie, che non posso non citare integralmente.
Ma qual era lo spettacolo! Chili e chili, metri, di farfalle notticule stavano divorando le parti commestibili dell’automobile misteriosamente sparita dal garage della Vonvolverh. «Un fottio di farfalle». Masticavano e ingerivano la gomma e i tessuti; ispirate da una furia cieca portarono via le ruote. Emettevano suoni osceni. Sbattevano le ali e digrignavano i denti.
Ne arrivavano sempre di più. Zeppavano le vie del cielo, fornicavano in volo, si riproducevano alla svelta per arrivare in di più presso quella loro opera di morte; possedute dalla frenesia si accoppiavano anche contro natura, inserimenti pervertiti di organi macchiavano le stelle.
E su tutto il fruscio delle ali in contatto, come una promessa di dolore.
Arrivavano. Alcune, rese pese dal pasto abbondante, non volavano neppure più, ma camminavano e basta-caracollando – in cerca di qualche preda. Strisciavano con le zampette prensili e adunche. Sostavano. Ruttavano. A pancia all’aria ammiravano la via lattea lucenti e bavose. Un ghigno torceva il volto di molte, forse di quelle che comandavano.
L’unica cosa che resistesse a quella furia era quella stessa lampadona che le aveva attirate, e che ancora spandeva luce viola nella tenebra maleodorante. Esse- eccitatissime – l’adoravano come un dio illegittimo e nuovo (pp. 51-52).
Il Leitmotiv teratologico diventa, da questo punto in poi, sempre più insistente e angoscioso, in una con l’imporsi di una visione escrementizia del reale (affondato nelle fogne e nei rifiuti), che costituisce un efficace correlativo della solitudine sociale:
Era notteJakob camminava stanco per i sentieri della metropoli, portando in groppa il fardellino per l’arrampicata. Strascicava i piedi sul bordo delle fogne. Sul marciapiede della sponda opposta un uomo solo era in piedi in mezzo ai rifiuti e il vento cosmico rialzava gli angoli dei cartoni attorno a lui (p. 57).
Jacob svela qui la radice psicotica del suo io malato, che lo porta a sgozzare senza traumi la finta madre-strega Erika, in un’atmosfera di strage apocalittica: «Fuori la città era completamente coperta da pezzi di nani e di insetti, che erano scesi dal cielo». Rinchiuso nella prigione che fa parte del mostruoso edificio della Vonvolveth, soggiace in pieno al proprio immaginario punitivo: tutto il reale si muove ostile contro di lui – i soliti «insetti con grandissime ali (a volte milioni di ali)», i «bestioni carnivori, tremendi, sereni nella strage», i «triceratopi arditi», e così via. Non mancano spunti di humour grottesco, ad esempio nella descrizione della trista fauna umana che popola il carcere, ad alleggerire il quadro soffocante del racconto. L’allucinazione suprema è quella della pianta carnivora, da cui Jacob crede di essere inghiottito e anzi succhiato: metafora atroce di un universo in cui regna incontrastata la legge del mangiare e dell’essere mangiati:
Giù la città, fumante e semiliquida, si muoveva come un’ameba in cerca di cibo (p. 102).
Un cadavere tentava di guardarmi, sapeva che io ero lì. Non potei fare a meno di guardare dentro al vetro. Lo vidi. Si mosse. Immaginai che lottasse per svegliarsi. Se ci fosse riuscito mi avrebbe morso e ingoiato (p. 103).
Devo dire che la parte più diegetica del libro (soprattutto quella della Baia delle Balene), pur ricondotta alla temperie eccitata e abnorme che informa l’invenzione singolare del romanzo, è meno convincente. La storia di Udo, ad esempio, è alquanto dispersiva; il racconto del mondo sotterraneo dei nani ricorda esempi illustri, da Luciano a Swift. Qui il fantastico è più convenzionale, alcuni personaggi (Hideiko, Tommaseo) sono un po’ di contorno. Lo stesso exploit finale è più sorprendente che plausibile, dopo la morte poco chiara di Adel (verremo a sapere che è stata uccisa dal geloso Jacob). La soluzione eremitico-spaziale consente tuttavia all’autore di chiudere il libro con alcune pagine di tono meditativo, in cui aggalla e si coagula in altre immagini ossessive l’io diviso del protagonista.
Dislocato nell’immensità del cielo, il vecchio Jacob non si libera affatto delle sue divoranti allucinazioni: la Nebulosa del Topo si dilata, ammicca, spalanca la bocca e la richiude («I baffi vibravano»); l’ordine cosmico è il caos: «La materia è troppo densa, dura, troppe stelle vicine, vecchie; tutto esplode, Pum, fa»; la terra «è gonfia perché è di già un cadavere. Galleggia nell’idrogeno come un cadavere che faccia il morto»; le orbite, confuse, si vanno sfaldando. Intanto il proteiforme compagno dell’«eremita rimbambito», uscito dalla vasca, gli si accoccola sulle ginocchia: il suo labbro inferiore sporgente ricorda quello di Adel, memoria e rimorso indelebili (« La strana faccia di A.d. parve sorridere – era una faccia larga per essere piccola»). Il romanzo termina con una sorta di ritorno all’inizio, con l’eroe rinchiuso nella sua navicella isola che affonda nel vuoto insieme con il suo odiosamato alter ego, il nero-giallo pesciolino, A.d. come Adel.
Un’altra lieta sorpresa è la scintillante scrittura esibita da Carabba, segno indubbio di una genuina vocazione artistica. Il discorso è polifonico e ruota attorno alla voce di un narratore onnisciente che orienta la diegesi (l’azione del racconto) e si alterna con quella del protagonista, in un impasto assai libero, essendo peraltro minima la distanza fra l’una e l’altra. Nell’ultimo capitolo, il soliloquio di Jacob è brevemente commentato da inserti descrittivi e meditativi in corsivo; mentre al centro del libro si colloca l’importante intermezzo epistolare. La continua variazione prospettica permette all’autore di tenere dietro alla proliferante visionarietà della fabula e al tempo stesso di penetrare con finezza nella psiche sconvolta del personaggio principale. Alla sovraeccitazione che caratterizza il tono del romanzo corrisponde uno stile intricato, nervoso, densamente figurativo, con improvvisi straniamenti poetici (di gusto futurista):
Le case si flettevano in una faticosa risalita del vuoto. La felicità camminava sola. La vasta ombra del mercato centrale cigolava. Prese un emisfero tra le labbra, lo strizzò e parve nascere il sole.
La scrittura espressionistica è congeniale a Carabba, che ha felicemente attraversato l’impervio continente gaddiano (« Guardava la soffice sostanza di lei risalire fino al solco fra le poppe e le spalle, fino al collo, dentro il quale rimbalzavano le pulsazioni, il percosso sistema di tendini»), per guadagnarsi unproprio spazio linguistico-formale spesso giocoso e ironico (Salire saliva. Sudava, Sudava saliva. Sputava. Sperava, sbavava, aspettava, colava, sbatteva, cadeva»: una sequenza alla Palazzeschi), con qualche sentore dei comics (ma per lo più lo humour è amaro, se non tragico). Proprio a questa miscela di allucinazione assurda, di giallo surreale e fantasioso, di ludica oltranza antirealistica, di riso beffardo e agghiacciante Enzo Carabba affida una significativa metafora della lucida disperazione del nostro tempo.