di Luciana Floris
Enzo Fileno Carabba abita una casa piccola, ai confini della città, laddove la trama urbana si sfilaccia per lasciare spazio a una zona collinare, a campi e orti fioriti. Davanti alla finestra spalancata da cui entra l’odore della campagna, parliamo del suo romanzo d’esordio. Jakob Pesciolini, che ha vinto il premio Calvino ’90 per l’opera prima ed è stato appena pubblicato: dalla casa editrice Einaudi.
E’ un romanzo che nasce da una formazione di confine tra musica, letteratura e filosofia. L’itinerario di Enzo Carabba, fiorentino, 26 anni, studi di composizione e pianoforte presso la Scuola di Fiesole, comincia con la creazione poetica, prosegue con poemetti e libretti d’opera (tra cui Integrale Sade, musicato da Sylvano Bussotti). prima di approdare alla scrittura narrativa. Abbozzi di racconti, e poi il romanzo.
Lo scenario iniziale è quello di una metropoli vista attraverso la trasparenza di un acquario, piena di “anfratti”, di “tentacoli luminescenti”, con edifici che sembrano “scogli progrediti” e compaiono tra “le le code ariose dei pesci”. Jakob, «re delle granile” (“era molto ricco e voleva morire”), assolda una efficiente organizzazione capace di “uccidere senza pettegolezzi”.
Poi, pentito, si trova alle presa con un “angelo della morte confuso”, che “volteggia nel cielo di fango e di carbone della città, con le ali d’argento sospese e incerte nel movimento”, mentre una “bava d’oro gli schiuma la bocca di demone”.
“L’idea del prologo – dice Enzo Carabba – era quella del suicidio su commissione: in questo tema, del resto ampiamente sfruttato dal cinema (penso a Orson Welles, ma anche al recente Ho affittato un killer, del regista finlandese Aki Kaurismaki), mi affascinava la possibilità di giocare con la morte, di personificarla e renderla meno sfuggente, un ibrido interessante. Mi piace creare situazioni limite in cui la natura umana viene esasperata ed emergono elementi latenti”.
E di situazioni estreme il romanzo è ricco: l’infanzia solitaria di Jakob su un’isola, l’adozione da parte di una ricca filantropa che poi il protagonista ucciderà, la prigione e la fuga, l’avventura nella foresta mangiatrice, la spedizione in Antartide per irrorare il continente bianco con succo di limone e trasformarlo in una gigantesca granita.
“È difficile tracciare un confine che non sia evanescente tra reale e fantastico – dice Carabba – Comunque l’impianto-base del romanzo non è favolistico: la narrazione muove dal nostro mondo fisico, concreto, e procede con irruzioni non realistiche, con elementi deliranti, ossessivi, assurdi. E’ sommai un fantastico con una sua fisicità ben visualizzabile, una realtà violenta, posta in condizioni estreme. Non a caso le vicende si svolgono sempre a grandi altezze: in cima a grattacieli, sopra gli abissi, sotto i ghiacci. Sono affascinato dall’alterazione di tutte le situazioni fisiche; mi interessa la verticalità, l’altezza, o l’essere in orbita”.
Il linguaggio è asciutto, disincantato, animato da uno spirito ironico e giocoso che non conosce mai toni enfatici («Bando ai sentimentalismi”, si dicono i protagonisti della spedizione in Antartide: il paradiso è quello degli elicotteri, l’amore è rivolto ai coltelli o ai ragni pelosi). E’ un linguaggio che si potrebbe definire materico, attento all’inorganico, alla scomposizione anatomica del corpo. “Si deve cercar di reagire a una visione dell’uomo bloccata, cristallizzata, coi suoi tormenti stereotipati. Tento di uscire – dice Carabba – da una visione antropomorfa, per vedere l’uomo secondo una prospettiva non precostituita: come un ammasso di molecole, per esempio. Ma questo è già un progetto fallimentare, una sfida: per l’uomo è difficile pensarsi a prescindere da se stesso”.
Se il soggetto narrativo viene scomposto, anche l’intreccio non resta intatto. Il filo narrativo non scorre lineare, ma si avviluppa a creare appendici mostruose», “parti magmatiche”, in un “gioco combinatorio di blocchi”, secondo una struttura musicale.
Che ne è della storia in tutto questo? «L’impossibilità di raccontare storie mi sembra far parte di una visione metafisica, evoluzionista della letteratura – risponde Carabba – E’ una concezione accademica, da antologia. La storia è un veicolo. E’, come scrive Stephen King. ‘una macchina che al di là del brutto e del bello deve andare’. E poi, forse, è connessa al ritmo biologico dell’uomo: alla sua condizione di animale migratore, nomade.Perciò credo che il raccontare storie non si possa considerare esaurito. E poi, mi pare che il ‘900 sia ricco di storie: penso a Joyce, Proust, Gadda. Certo, si tratta di storie scomposte, spezzate, aperte a più possibilità. Se Cent’anni di solitudine ha una trama ben precisa, in Conversazione nella cattedrale di Vargas Llosa c’è un proliferare di storie che si susseguono senza soluzione di continuità».
Viene da chiedersi quali siano i riferimenti letterari che stanno dietro questa pagine, dietro questa scrittura “destrutturata, continuamente inventata” (come l’ha definita Vincenzo Consolo su il manifesto del 14/3/91). “Una combinazione di Rabelais, Kafka, Cervantes. Non mi piacciono le librerie di libri nuovi, ma di libri usati – risponde Enzo Carabba – E poi leggendo i contemporanei non mi imbatto spesso in cose che sento profondamente vicina alla mia natura. A parte qualche eccezione: Wilcock, Borges, Kurt Vonnegut. E Manganelli: una scrittura che trovo eccezionalmente viva perché aderente all’immaginazione dell’autore, capace di insinuare nelle pieghe del raccontare insolite ipotesi narrative”.
V’è anche un poco, in Jakob Pesciolini, del Calvino delle Cosmicomiche e in generale dell’ideale di “esattezza”, su cui si fonda la sua concezione della letteratura, vista come tentativo di inventarsi delle regole e poi seguirle. “Sì – dice Carabba – Cerco di essere aderente alla mia percezione, preciso rispetto ai percorsi della mia psiche. Credo in una costruzione rigorosa del testo a tendo ad essere metodico, a svolgere dei compiti prestabiliti secondo una disciplina e una certa dose di autocontrollo. Mi piace il ritmo costante nello scrivere: riuscire ad essere dentro le storie, esprimere armonicamente un mondo, trovare i personaggi giorno dopo giorno. Mi piace questo aspetto rituale, militare, dello scrivere: non c’è l’affanno di trovare le idee. Poi ci sono anche dei periodi di saturazione in cui non scrivo nulla”.
Insisto sugli aspetti pratici dello scrivere. “Scrivo a mano, almeno la prima stesura, poi trascrivo al computer, che tuttavia mi spaventa perché non conserva le varianti; così si perde l’aspetto materiale della scrittura. E poi, quella stratificazione di segni che si addensano sul foglio mi fa sentire a posto con la coscienza. La giornata, così, acquista un ritmo, si ha l’impressione di plasmare il tempo: ci si sente meno instabili”.
Alla fine del romanzo, anche Jakob sconta la sua colpa (forse ha ucciso Adel, compagna di avventure) ruotando intorno alla terra per sperimentare la reazione degli ultracentenari al “paraggio cosmico”.
Finché la capsula spaziale subisce un deragliamento improvviso: esce dall’orbita terrestre e viene trascinata verso un pianeta “vaporoso e straniero”. Poi le orbite si sfaldano, confondono, l’astronave comincia ad affondare nel vuoto, alla deriva.
“Non penso che l’uomo vada più alla deriva oggi che in altri momenti storici: è una condizione estrema che ritorna”.