Due esordi ben differenti per tastare il polso della più giovane narrativa

di Arnaldo Colasanti

Un esordio letterario reclama il festeggiamento: sebbene ogni festa che si rispetti

debba anche saper raccontare un momento tragico, quello che dà il segno dell’iniziazione o, se volete, di un destino. Ora nessuno di noi spasima per fare la parte della vecchia strega che regala un maledetto fuso con cui pungersi. Però si tratta anche di starci in qualche modo in una festa: e a un certo punto (se davvero si vuole continuare ad andare al tavolo della letteratura) si tratta di chiudere gli occhi e fidarsi soltanto del proprio palato. Primi assaggi: La bellezza dell’asino (Marsilio) di Pia Pera. Non è granché: sa di colla di pesce. 

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Molto diversi gli aromi e le sorprese di Jacob Pesciolini (Einaudi) dell’esordiente Enzo Fileno Carabba. Beviamo un vino freschissimo, eppure resinato e complesso. L’idea (riempire l’Antartide con un succo di limone per farne un’enorme granita) è qualcosa di più di un invenzione: come sa richiamare uccelli di varie specie (immagini di una surrealtà pulita ma lancinante: per esempio quel maiale che piange a fior d’acqua, con un coltello nel fianco, fra cernie e squalotti al colmo del desiderio). Così come sa imporre un puzzle incalzante di motivetti, policromie marine insistenti e felici, secondo una tecnica di scrittura che spesso può unire l’arte della fuga (soprattutto un’arte ritmica della nitidezza) con un timbro strambo, una composizione piacevolmente deviata, come in quella lingua plasticata eppure esatta nei ghirigori di un fumetto: “Un laghettino provocato da una diga artificiale di pochi metri. Di lì non erano passati all’andata. Pazienza, ci passavano ora. Ma siccome erano esausti, e non tutto avviene come vorremmo, stabilirono di fare il bagno. Adel gli dette un bacio e poi Jacob baciò Adel”. 

Certo in questo romanzo affiorano anche secche di automatismo, pagine in cui Carabba perde quel suo pulito e intenso puntinismo. Ma affiorano anche due gioielli di scrittura: il Prologo e La fine: “Come sono ridotto: un eremita rimbambito – senza offesa – che per addormentarsi osserva il ruscellamento del sangue nelle braccia trasparenti. Quasi non ci credo. Guardo fuori, penso che nulla di tutto ciò esisterà mai. Lo spazio di fuori lo guardò e sorrise. Morte e orrore. La felicità camminava… La verità è che ci siamo disancorati. La massa non ci tiene più. Affondiamo nel vuoto. Ma questa volta affondiamo tutti e due. Mettiamoci a nanna. C è ancora molta strada”. 

Oggi è solo un assaggio. Ma verrà qualcosa di molto buono da questo scrittore. Auguri. Quando dalla sua surrealtà frizzantina affiorano “fili pigri di sangue”, una concentrazione appena levigata ma profondamente dolorosa, comprendiamo quanto Carabba faccia sul serio: quello che potrà ancora raccontarci.

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