Il senso delle Vite di Vasari

di Chiara Dino

Immaginare di dare corpo e anima,  a uomini come Filippo Lippi o Sandro Botticelli, Pontormo o Cimabue,
Leonardo o Michelangelo  è impresa non facile. Intanto perché durante la prima metà del ‘500 lo fece già
Giorgio Vasari, architetto della corte medicea che ha firmato progetti come  gli Uffizi,  nelle due edizioni
delle sue  Vite (1550 e 1568) definite, forse in maniera limitata, il primo libro di storia dell’arte quando è
molto di più. E poi perché si tratta di materia delicata assai visto che se oggi Firenze è quella che è, e forse
anche se l’Occidente è quello che è, lo si deve un po’ anche a questi artisti.

Una serie, un libro
Enzo Fileno Carabba, scrittore dalla penna lieve,  lo ha fatto tenendo compagnia ai lettori del Corriere
Fiorentino con umiltà e arguzia per quattro anni  — dal 2016 al 2020 — in una serie nella quale, puntata
dopo puntata,  quelle vite narrate dal Vasari le ha riscritte a modo suo. E poi queste stesse le ha portate in
giro, insieme al giornale in pubbliche letture che si sono svolte: qui a Firenze nel museo di Casa Vasari, e ad
Arezzo, città dove era nato l’architetto di Cosimo I, con accompagnamento musicale del Duo Meissa e
grazie a una partnership con la Scuola di Musica di Fiesole.  Il 26 maggio questa impresa arriva in libreria
con Bompiani in un volume di lettura piacevolissima che s’intitola Vite sognate del Vasari. Un unicum, che
cambia la percezione di quanto pubblicato negli anni su questo giornale. «Il libro — osserva l’autore — ha
dato al mio lavoro la visione d’insieme di quanto avevo fatto. Quando lavoravo alle singole storie per il
Corriere Fiorentino la rete di relazioni che legava ciascun artista agli altri non era  evidente come lo è oggi.
Leggere una vita dopo l’altra ti fa intercettare frequentazioni, amicizie e inimicizie, simpatie e antipatie».
Non solo, lo sguardo dall’alto e inclusivo, e dunque   non frammentato dalla scansione seriale della
pubblicazione su quotidiano, rende il clima complessivo della città di Firenze nei secoli in cui vissero questi
protagonisti dell’arte italiana, rinascimentale e,  forse anche mondiale. Già, ma che Firenze era quella?

Città e tanti caratteri
«Il mio libro — ricorda Carabba — è dedicato ad artisti, pittori, scultori,  architetti che hanno vissuto lungo un arco di tempo compreso tra la metà del 1200 (come Arnolfo di Cambio, l’artista dell’architettura leggera), fino a metà del ‘500, e penso a Michelangelo che morì nel 1564. Se non è possibile sintetizzare cosa siano stati per costumi e abitudini 3 secoli di vita fiorentina, certamente dei tratti distintivi li ho ravvisati e  possiamo anche parlarne ma prima vorrei fare una precisazione. Quello che ho cercato di fare nel riscrivere le Vite è stato cogliere anche l’aspetto immaginifico delle singole esistenze». Carabba, nei tanti mesi e anni di studio dedicati all’impresa, trascorsi in parte sui libri, in parte nei musei e in parte al telefono con Andrea Di Lorenzo,  vicedirettore del Museo Poldi Pezzoli di Milano e direttore del Museo Ginori, che lo ha accompagnato passo passo dandogli dritte e consigli, si è convinto che anche Vasari si era concesso parecchie licenze creative. E in effetti come dargli torto. In fondo l’operazione dell’architetto aretino era chiara sin dalla sua genesi: lui, uomo fedelissimo dei Medici, doveva scrivere una storia dell’arte che sancisse il primato di Firenze e dei fiorentini sul mondo. Inoltre lo stesso Vasari era uomo aduso a relazioni politiche complesse — sapeva cosa andava e non andava detto —  e come tutti aveva le sue simpatie e antipatie e dunque, pur non travisando i fatti, ci metteva del suo nel narrarli. «Anche io ho seguito questa traccia — dice Carabba — e ho dato molto valore all’aspetto caratteriale dei singoli artisti, alla loro capacità di immaginazione. E facendolo, per ritornare a quanto si diceva prima sulla Firenze del tempo, mi sento di dire che in passato, soprattutto nei primi secoli della mia narrazione, gli artisti fiorentini
erano  più giocosi. Scherzavano un po’ come fanno ancora i fiorentini di bottega, i nostri artigiani».
Motteggi e celie erano la norma.

Un indole a ciascuno
Ciò premesso e visto che l’obiettivo di Carabba era quello di restituire un po’ il senso di ciascuna vita, ecco
che, leggendole, si riconoscono dei tratti caratteriali precisi. Se Arnolfo di Cambio era colui che nella sua
architettura ricercava la leggerezza «in Filippo Lippi — suggerisce lo scrittore — mi ha colpito la sua
capacità di farsi amare, invidiabile. In Botticelli invece è la materia soave della sua anima a emergere,
ancora più evidente perché nella seconda parte della sua esistenza questa lascia il posto  alla cupezza.
Leon Battista Alberti, invece, era  l’uomo della nostalgia. Lui nacque da una famiglia di fiorentini esiliati e
sino a un certo punto della sua vita rimase bandito dalla città». Un discorso a parte meriterebbero
Leonardo e Michelangelo. Di loro, dei giganti, Carabba aveva paura, «ero convinto che non mi sarei
azzardato a scrivere di loro. Poi mi sono accorto che le loro esistenze tornavano in tutte le altre biografie e
li ho affrontati».
E i due giganti sono divenuti «un cervellone il primo, e l’anima che, come dicevano i neoplatonici, aveva
scelto il corpo in cui incarnarsi, il secondo».

 

Illustrazioni di Liza Schiavi