di Antonio D'Orrico
Cominciamo con un noir. Il protagonista si chiama Andrea del Castagno, è nato sotto il monte Falterona, in Mugello, esattamente seicento anni fa. Orfano di padre, fa il pastore per uno zio. Un giorno che piove si ripara sotto un tabernacolo. C’è un pittore che sta dipingendo. Ne resta affascinato. Con un pezzo di carbone comincia a disegnare sulle rocce. Figure bellissime. Un gentiluomo fiorentino di passaggio le vede e lo manda a bottega di un grande maestro (pare Masaccio). In poco tempo diventa un pittore ricercatissimo. Tra le sue specialità i Cristi flagellati e i ribelli impiccati all’ingiù. Tanto che per un periodo quei simpaticoni di fiorentini lo chiamano Andrea degli Impiccati. Non un bel nome. Andrea del Castagno ha due difetti. Uno personale (è invidioso da morire, vizio che lo fa precipitare «in un pozzo di tenebre e ira»). Uno professionale (non sa dipingere a olio). Dalla combinazione dei due difetti scaturirà la sua rovina.
Un giorno nel giro dei pittori fiorentini, che è un bel club, la crème de la crème dell’arte mondiale, sbarca un forestiero, Domenico Veneziano. Ha subito successo. E bravissimo e possiede il segreto della pittura a olio: la formula gliel’ha trasmessa direttamente Antonello da Messina. Andrea e Domenico diventano amici. Domenico suona il liuto e Andrea gli tiene compagnia nelle serate. Però si fa il sangue amaro perché tutti ammirano il Veneziano e perché quest’ultimo si tiene stretto il segreto dei colori a olio. Domenico si tiene stretto il suo brevetto. Domenico propone ad Andrea di andare con lui a fare una serenata a certe ragazze. Andrea gli risponde che deve finire un lavoro. Non è vero. Quando Domenico va via, lo pedina di nascosto. Poi, in una strada deserta, gli salta addosso, gli sfonda il liuto e lo stomaco con i pezzi di piombo che si è portato dietro (omicidio premeditato). Ritorna a casa e si rimette a disegnare. Vanno a riferirgli la notizia, lui corre da Domenico. Respira ancora. Ma poi si spegne tra le braccia del suo assassino. Nessuno sospetta di Andrea. Sarà lui stesso, anni dopo, a confessare il delitto in punto di morte.
Ormai quasi cinque secoli fa, Giorgio Vasari raccontò questa vicenda scellerata in mio dei libri più importanti nella storia dell’umanità, il Who’s Who dell’arte, un libro unico al mondo: Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri: descritte in lingua Toscana.
Vasari raccontò i maestri del suo tempo e di tutti i tempi (Giotto, Paolo Uccello, Brunelleschi, Perugino, Giorgione, Michelangelo, eccetera) con la stessa verve con cui Gianni Brera avrebbe poi narrato i campioni del calcio. Il problema è che Brera un po’ viene ancora letto e citato, ma Vasari chi lo legge al di fuori della stretta cerchia degli addetti ai lavori e di qualche valoroso? Ed è un problema che riguarda anche altri grandi classici della letteratura italiana. Qualcuno ha anche provato generosamente a risolverlo, ma senza molta fortuna (Alfredo Giuliani e Italo Calvino riscrissero per esempio Gerusalemme liberata e Orlando furioso con lo spirito di un cantante che fa la cover di una vecchia canzone).
Adesso ci prova Enzo Fileno Carabba, 55 anni, fiorentino (che cominciò giovanissimo nel 1990 come scrittore d’avanguardia con il romanzo Jakob Pesciolini e scrittore d’avanguardia, nel senso migliore del termine, è rimasto). Spiega Carabba: «Le Vite di Giorgio Vasari raccontano un fiume di
esistenze memorabili che sono alla base della nostra civiltà. Però sono scritte in un italiano che oggi risulta straniero, per cui il fiume si inabissa».
Ma in Vite sognate del Vasari (Bompiani), Carabba non si è limitato a una traduzione nell’italiano di oggi, ci ha anche messo del suo. Ha ricostruito, per deduzione, qualche pezzo mancante così come fanno gli Indiana Jones quando scavando nel passato trovano una scodella rotta. Vite sognate del Vasari è un libro di «archeologia narrativa». Ed è anche un trattato sentimentale: «Ogni vita indaga uno stato d’animo o uno stato di grazia. Si tratta di vite passate ma di sentimenti presenti, quasi che i singoli esseri umani fossero solo dei portatori che permettono ai sentimenti di vivere e riprodursi». Per cui la vita di Filippo Lippi racconta la capacità di farsi amare, quella di Leon Battista Alberti la nostalgia, quella di Andrea del Castagno il rancore.
Carabba si comporta come il medium in una seduta spiritica. Evoca le anime vasariane, le ascolta, le fa parlare con la sua voce. A un certo punto presta un suo sogno a uno dei personaggi per spiegarlo meglio. Poi si ferma a considerare il suo sogno e si accorge che è disegnato superbamente, in un modo assolutamente superiore alle sue capacità di disegnatore. E allora gli viene il dubbio che qualcuno dei maestri delle Vite si sia insinuato nottetempo nei suoi sogni e ne abbia curato la grafica. C’è stato un interscambio sotterraneo, misterioso, tra il nuovo autore e gli antichi personaggi. Ma si può aggiungere qualcosa a Vasari come ha fatto Carabba? Esaminiamo un
caso. Vasari racconta che Piero di Cosimo soffrì molto quando da vecchio gli venne il parletico e le mani cominciarono a tremargli. Carabba aggiunge un particolare tenerissimo. Cosimo che si sveglia la mattina, si guarda le mani e chiede loro: «Come vi sentite stamattina?».
Raccontando Paolo Uccello, Carabba ricalca il copione di Vasari. L’ossessione per la prospettiva che lo relega alla solitudine spingendolo alle soglie dell’autismo. Mania che lo fa venir meno anche ai doveri e piaceri coniugali: «La notte la moglie lo chiamava a letto e lui dallo scrittoio rispondeva: “Aspetta, sono qui con la prospettiva”». Poi c’è lo scarto, l’invenzione.
Carabba immagina, con rispetto ma senza paura, il pezzo mancante, la forma che doveva avere la scodella rotta. La scodella rotta è Antonia, la figlia di Paolo Uccello. Vasari accenna solo di sfuggita a lei: «Sapeva disegnare». Da questa piccola tessera Carabba ricostruisce il puzzle, la vita intera di Antonia. Antonia era terrorizzata da bambina dai bellissimi e minacciosissimi draghi dipinti dal padre. Poi decise di farsi suora per poter dipingere in pace nel convento. Oltre a saper dipingere, sapeva anche pregare. Recitava l’Ave Maria come un mantra, un esercizio di respirazione. Alla fine Antonia fu considerata santa e quando morì le sue consorelle la fecero a pezzi per potersene tenere una reliquia.
I personaggi di un libro sono tutti uguali per un autore, come i figli per un genitore. Ma ci sono personaggi ai quali Carabba vuole più bene. Uno, secondo me, è Andrea del Sarto, soprannominato « Maiunerrore» perla sua insuperabile perizia artistica. Andrea ebbe un tormentato rapporto con la bellissima moglie Lucrezia (vedova di un berrettaio). Costei, ammiratissima dagli uomini, era sempre in cerca di nuovi fan, magari gente che non era nemmeno degna di pulire i pennelli con l’acqua ragia al maestro Andrea. Lucrezia trattava malissimo il marito, lo prendeva in giro, lo chiamava «Perfettino». Vasari ritiene che Andrea, proprio per colpa della moglie, non diventò un pittore più grande di quel grande pittore che già fu. Ma proprio quando noi stiamo prendendo le parti del povero marito (come fa Vasari), ecco che Carabba rovescia la lettura della storia e ne fa un caso di psicopatologia della vita coniugale, una manifestazione di sindrome vittima-carnefice, insinuando che ad Andrea non dispiacesse per nulla essere maltrattato dalla moglie, anzi la provocava a farlo.
Piloti, che gente… intitolò un suo libro Enzo Ferrari. «Pittori, che gente…» sembrano dire Vasari e Carabba. Ecco Rosso Fiorentino che dipingeva santi ma gli venivano fuori diavoli, allora scappava via facendosi il segno della croce. Baccio Bandinelli «visse lamentandosi» ed era magnifico «nell’offendere le persone». Ecco Properzia de’ Rossi, bolognese: «Era una bambina bellissima e soave. Se la ascoltavi cantare scivolavi nell’incantesimo». Un giorno disse al padre: «Voglio diventare una femmina scultora». Il padre la dissuase (sono cose da maschiacci). Allora lei si dette ai lavori domestici. In cucina fingeva di fare il pane. In realtà, di nascosto, faceva sculture di mollica. Una volta terminate, se le mangiava per non essere scoperta (come una spia che ingoia un biglietto compromettente).
Le Vite di Vasari sono il più grande libro di storia dell’arte mai scritto, il fondamento stesso della disciplina. Ma sono anche un campionario infinito di umanità, un censimento di gente veramente esistita. Carabba ha fatto bene a rendere omaggio a questo capolavoro scrivendo, con la sua maniera lieve e gentile, un libro di singolare magia (ce n’è solo un altro così tra i libri italiani: Le città invisibili di Calvino). E credo proprio che Vasari avrebbe approvato questo spin off delle sue storie.
Prima di finire dobbiamo tornare a dove abbiamo cominciato perché il noir di Andrea del Castagno e di Domenico Veneziano (il Salieri e il Mozart della pittura) è del tutto inventato. E’ un’invenzione l’omicidio, è un’invenzione il segreto della pittura a olio. La storia è falsa da cima a fondo. A scagionare Andrea dall’infamante accusa bastano due date. Il presunto assassino Andrea morì nel 1457. L’uomo che avrebbe ucciso, cioè Domenico, morì nel 1461, quattro anni dopo il suo assassino (l’imputato è assolto perché ha un alibi di ferro: all’epoca dei fatti addebitatigli era morto).
A Vasari piaceva arrotondare i suoi racconti con dicerie e leggende. E’ il segreto dei grandi narratori. Una piccola menzogna piazzata al momento giusto rende una storia più autentica e intramontabile. Ma nel caso del noir di Andrea e Domenico la menzogna è assoluta, totale. Perché?
Carabba suggerisce una pista. Ricorda che il tema dominante della vita di Andrea del Castagno è l’invidia, «il pozzo di tenebre e ira» dove spesso finiva per cadere. Ma qui si ferma e lascia al lettore di trarre le conclusioni. Aveva forse Vasari conoscenza personale e diretta di quel «pozzo di tenebre e ira»? Usò e calunniò il povero e incolpevole Andrea del Castagno per esplorare gli abissi a cui può portare il rancore?
Carabba sa da scrittore che giocare con le vite degli altri è giocare sempre alla fine con la propria vita. Siamo una unica, sola biografia che si perpetua nel tempo. Forse ripetendo una storia uguale. Di certo provando gli stessi sentimenti.