di Giovanna Morelli
Articolo apparso sul blog minima&moralia.
La storia delle storie
Seguire il percorso narrativo di un autore può essere avvincente: Enzo Fileno Carabba nel suo ultimo romanzo L’arca di Noè, Ponte alle Grazie 2025 – il suo romanzo più poetico, filosofico e a suo modo religioso – compone una summa, un’arca appunto, del suo immaginario, approdando circolarmente a questo libro come se fosse il suo primo: la matrice narrativa che contiene gli echi apocalittici della trilogia iniziale pubblicata da Einaudi (Jakob Pesciolini – 1992, La regola del silenzio – 1994, La foresta finale -1997), le ascesi esistenziali delle fanta-biografie (Vite sognate del Vasari, Bompiani 2021; Il digiunatore, Ponte alle Grazie 2022; Il giardino di Italo, Ponte alle Grazie 2022) e, tra i due blocchi, lo spartiacque della mito-biografia la Zia subacquea e altri abissi familiari (Mondadori 2015) dove gli abissi personali si ricongiungono agli abissi dell’umanità. Tutte le storie sono unite, tutti i ricordi sono comunicanti, come in quella “confraternita del silenzio” del secondo romanzo, lo stesso silenzio che incombe nell’arca anche quando è piena di voci. Forse Carabba ha scritto del diluvio universale perché ama le storie che si allargano (si allagano) dalla vicenda personale a un senso corale, permettendoci di “cavalcare onde alte secoli”, storie che uniscono culture diverse, attraverso e oltre la loro eventuale realtà e le varianti narrative. La storia del diluvio e dell’ arca si presenta come la storia delle storie, perché racconta della vicenda umana e creaturale che tramanda se stessa, oltre la rovina universale.
Una storia che sembra un sogno ma non lo è, o lo è come lo sono i grandi miti dell’umanità. Riscrivere il mito del diluvio (la storia più antica, come la definisce Carabba) significa oggi misurarsi non solo con i simboli che contiene e con la loro rilevanza per noi, ma anche misurarsi con la forza stessa di ciò che un mito è: la sua capacità di attraversare i millenni alimentando la facoltà mitopoietica dell’uomo ed essendone a sua volta alimentato. Dalla combinazione dei nostri miti e dei nostri “calcoli esatti”, scrive l’autore, i “disastri e le meraviglie” della storia.
Il plot mitologico del diluvio – l’ecatombe, il grande lavacro ad opera divina, l’arca della salvezza e la ri-generazione dell’umanità – ci pone dinanzi alla sfida di tutti i miti, la trascendenza. Non c’è mito senza uno spessore sovrannaturale, non c’è mito senza i suoi dei, qualsiasi forma essi assumano. La trascendenza, e il mistero che la accompagna, possono essere vissuti come un limite intollerabile per il pensare e l’agire umano, o viceversa come una liberazione dell’uomo, in una amplificazione del senso. Possiamo tarpare e ridurre strumentalmente il mito, o lasciare che sia il mito a interrogare e dilatare il nostro sguardo: «Forse per questo nascono le leggende, anche assurde: per spiegare qualcosa di vero che però non sai dire. Qualcosa di esorbitante rispetto alle cose che pensiamo e diciamo di solito. Non è forse questo il bello della vita?» (p. 24) . Troppo spesso insensibili all’ambiguità, gli uomini desiderano “vederci chiaro”: «un desiderio destinato al disastro, in un mondo fatto anche di ombre» (p.23).
I dubbi di Noè e il diluvio del tempo
Muovendosi acrobaticamente in simile materia, senza nascondersi tra le righe, e concedendo al suo Noè assoluta libertà, Carabba accoglie i tratti identificativi del mito del diluvio – Dio- la colpa-la punizione-la rinascita – spaziando tra le sue diverse ma sostanzialmente consonanti versioni. Li accoglie in modo obliquo, problematico, sollecitando il lettore a dire la sua su questi mitemi. Perché obliquo e problematico, lunatico e stralunato è innanzitutto il suo Noè, come un vecchio hippie che porta la sua “pazzia” in giro per il mondo. Un uomo alieno dai “ragionamenti abituali”, fratello di tutti gli altri personaggi “diversi” ovvero visionari di Carabba (siano artisti, digiunatori o scrittori). Noè vede ciò che gli altri non vedono, la imminenza della catastrofe e la via di salvezza. Della sua pazzia, e del “brivido segreto” che comunica, gli altri hanno bisogno, ma come tutti coloro che vedono oltre, Noè si misura ricorrentemente con l’ incomprensione, la derisione, lo scetticismo altrui e talora anche proprio. Questo Noè, infatti, a differenza dei “patriarchi invincibili e sicuri” conosce “il dubbio e lo smarrimento” e si chiede chi e perché meriti di essere salvato (nella versione di Carabba l’arca accoglie, assieme alla famiglia di Noè e agli animali, anche un piccolo popolo di umani). E tuttavia Noè è fedele, anzi abbandonato alla voce di Dio, quel Dio che l’autore si premura di non nominare o di farlo il meno possibile, conducendo il suo Noè su quel crinale dove la Natura parla e dove vacillano i confini tra le creature e tra le creature e Dio. Ma al tempo stesso l’autore si lascia a sua volta condurre dal suo personaggio alla ricerca di Dio. «Da dove veniva la voce che sentì?» (p.13).
La cacciata dal Paradiso terrestre è la soglia mitica che ha deciso della condizione umana quale ci è dato di sperimentare. L’albero della conoscenza, nella peripezia di questo Noè, è sepolto in fondo al mare; Noè lo scruta da un oblò segreto dell’ arca e le verità, i suoi messaggi, sono tutt’altro che facilmente decifrabili. A questo servono i profeti e i patriarchi, così come Carabba li tramanda nella sua narrazione, uomini carichi di tutti gli interrogativi e i drammi della storia. «Era certo che ci fosse un nesso tra il comportamento umano e il diluvio. Si chiedeva quale fosse» (p.43). Questo Noè non riesce a fare suo il concetto di colpa o di peccato ma non manca di rilevare tutto ciò per cui tende a evitare gli umani. Gli uomini « continuavano a fare tutto, come sempre, sempre peggio […] Forse non avevano colpe, chissà, eppure chiamavano la condanna» (p. 11). Ingordi di tutto, desiderosi di sapere tutto e subito, di avere ragione, carichi di “troppo zelo morale”, aggressivi, incapaci di riconoscenza e preghiera… «Quando non li salvava tendeva a fuggirli» (pp.186-187), preferendo accompagnarsi agli animali (in primis il fido compagno canino Iabal), ovvero altrettanti personaggi e caratteri che popolano il romanzo e orientano le sorti dell’arca, latori di impensabili rivelazioni e spesso intercambiabili con gli “angeli”- questi “animali straordinari”.
Noè è “l’uomo primitivo del futuro” di cui Carabba ha scritto in passato, l’uomo che attraversa e percepisce il tempo. «Noè era l’unico della sua generazione ad avere la percezione del mutamento. Era in questo senso che camminava con Dio» (p.38). Se gli altri vedevano un punto fermo «lui invece sapeva che già una corrente invisibile stava spostando quel punto fermo» (p.38). Un Noè dunque coevo non solo all’epoca “arcaica” che ha dato voce al mito ma a tutte le epoche future che del mito e delle sue ragioni sembrerebbero sancire la fine. Il mito pare infatti essere smentito, agli occhi stessi di Noè, nel momento in cui si profila la salvezza finale: Noè ha imbarcato tutti quei difetti degli uomini che risorgono nel nuovo mondo dopo il diluvio, come hanno del resto infestato la permanenza sull’arca. «E io ho salvato questo branco di idioti» (p.226) penserà Noè nel momento del massimo sconforto.
Ogni progetto di rinascita sembra vacillare di fronte a ciò che siamo. Il sacrificio palingenetico e il nuovo patto tra gli uomini e Dio appaiono vanificati di fronte alla ostinata irredimibilità degli uomini e all’andamento catastrofico da loro impresso alla storia, quel « mondo di imbecilli ossessionati dalla produttività» (p.165). Il tragico paradosso di un diluvio autoprodotto, di un’umanità che è condanna a se stessa e al creato (come nei tratti distruttivi e autodistruttivi del così detto antropocene). Una simile irredimibilità sembra richiamare addirittura un castigo perenne, quale potrebbe essere la sofferenza connaturata alla vita, e l’apocalissi della impermanenza, la finitezza naturale di ciò che vive nel tempo. «Si era, come sempre, alla fine del mondo» (Borges citato in esergo), quella fine che si rinnova, per ogni uomo, nella sua propria morte, al culmine di quel lungo poema di perdite e distacchi che è la vita. Noè «nella sua vita era stato costretto a molti addii. Addii a persone, addii a luoghi, addii a stati del suo corpo, addii – dunque – a sé stesso» (p.63) e addii al proprio mondo travolto dalle metamorfosi del mondo. Noè vivrà 950 anni, l’avo Matusalemme 969 e l’ultima cosa che dirà è “la vita è breve”.
Il trucco per rinascere tra Senex e Puer
Eppure. Il mito perduto e parzialmente decostruito è ritrovato e ricomposto pervicacemente in queste pagine come nella volontà di questo Noè e nella strenua, per quanto imprevedibile impresa della costruzione dell’arca cui Carabba dedica metà del romanzo (suddiviso in tre parti: Fuori; Dentro; Fuori).
Eppure: – la vita, la speranza, la salvezza, il futuro, l’inizio – attraversano questo romanzo e la mente del suo Noè come mantra dalla forza inestinguibile, parole chiave tramandate dalla parola che tutte le contiene: l’ arca. L’arca «era un monumento al futuro» (p.76). L’ arca come custodia, tempio interiore del tempo escatologico, dopo la “contro-creazione” del diluvio. La speranza nella “seconda creazione”, la possibilità di salvezza e rinascita non è persa sinché un qualche figlio di Noè la coltivi in sé, attraverso il coraggio – altra parola chiave – con cui affronta, sceglie e preserva la vita. É così che gli uomini, al di là di tutte le discordie e gli scoramenti, furono capaci di trasfigurarsi, di fronte al ritorno del sole. « Tutti accolsero, con riconoscenza, il ritorno di una forza suprema […] fermi, felici, pazzi. Uniti. Che coraggio che avevano gli uomini!» (p.216), il coraggio che meritava di essere salvato.
“Unire” potrebbe essere la prima e ultima delle parole chiave di questo romanzo-poema, questo cantico delle creature percorso da una nostalgia di ricongiungimento e riconoscimento universale, l’unione degli uomini – i figli di Noè – e degli uomini col resto del creato, e di tutto il creato con il senso intravisto nel mistero dell’essere. Un approdo direi fatale per un autore che di acque, foreste, animali ha scritto da sempre, e adesso raccoglie nell’arca le lettere del suo abbecedario mitologico. «Nell’arca, galleggiando sull’annientamento, gli esseri viventi impararono insieme il trucco per rinascere» (p.14). L’epopea umano-animale-vegetale imbarca uomini e bestie su un’unica zattera verso un’unica salvezza o un’unica perdizione, stretti nell’ abbraccio legnoso dell’arca, modellata dagli elementi. La vita all’interno dell’arca, per Noè e tutti i suoi salvati, è un’avventura, perché l’arca, “la Grande Madre”, “l’uovo galleggiante”, è essa stessa una labirintica creatura vivente, insidiosa e benevola, un’architettura-foresta natante che continua ad esprimere la sua naturalità, le sue linfe nutrienti e i suoi semi, mentre l’acqua che annega il mondo traghetta l’arca verso la salvezza, e invita gli uomini a scrutare in profondità.
L’odio-amore di Noè, o dell’autore, o di ognuno di noi, verso ciò che siamo, approda a una riconciliazione. Una riconciliazione, anche, tra il Senex e il Puer che portiamo dentro, forse mediata, nel caso di Noè, dalla sciamanica forza femminile, vagamente aliena, della moglie Naama. Senex e Puer trovano la loro complexio nel lirismo disincantato, l’ossimoro proprio di questo Noè che a 600 anni canta l’inizio, il rinnovamento: «un nuovo gioco, una nuova missione, che lo riempiva di vita ancora una volta» (p.36). «In equilibrio precario sul confine tra distruzione e conservazione, non era mai stato così vivo» (p.119).
La senescenza archetipica dei patriarchi porta nel proprio corpo il corpo dell’umanità, la sua stanchezza, l’opacità di chi dispera di fronte al disastro della storia e della finitezza. Ma il lato d’ombra del Senex è esorcizzato dalla luce di un’ altrettanto archetipica giovinezza che della storia e del tempo sa anche vedere e innanzitutto immaginare la meraviglia. E viceversa i tentativi più goffi, gli errori, le sconfitte, le ombre e le rigidità militanti del Puer in cerca di certezze e improbabili classificazioni, sono esorcizzati dalla plasticità di quei vecchi in ascolto, come Noè, del “Qualcosaltro”. Il Qualcosaltro sconfigge l’impermanenza nella vertigine della trasformazione e della comunione data a Noé: «E allora lui assorbiva quell’ultimo messaggio del mondo, e notava il fremito di una narice, la carezza della pietra, le curve del serpente, il suono dell’ala nella corrente ascensionale. E diventava il cervo, il falco, il masso, il serpente. E a questo pensava, e di questo viveva» (p.64). Il Qualcosaltro si manifesta a Noè nella musica degli animali, nel loro “sguardo religioso”, nell’intimità di due corpi, nell’immaginazione, in certi «attimi che sono come divinità» (p.47), nell’autonoma vitalità degli eventi, nelle epifanie angeliche…negli atti di riconoscimento e fratellanza che sbocciano dall’abbrutimento e dalle divisioni nel ventre dell’arca vibrante, alla deriva come un’astronave.
La terra arca
La deriva spaziale tallona l’immaginazione di Carabba sin dal primo romanzo – Jakob Pesciolini – e dal suo protagonista, un ultracentenario imbarcato assieme a un pesce su una navicella spaziale: «siamo già tutti morti, non c’è più tempo per fuggire, questi esperimenti di colonizzazione dello spazio sono inutili» (p.189). Ma anche e soprattutto, nel terzo romanzo – La foresta finale – , il manipolo di sopravvissuti nel sottomarino volante dal nome Amore, scampato alla fine della civiltà umana fagocitata da una dilagante foresta terminale entro cui corre una rete di cavi portatori di informazioni. «Conveniva fuggire, come sempre e ancora una volta» (p.357). La prima arca di Carabba è proprio quel sottomarino volante che imbarca quanti più possibile animali: «Ora si libravano tra aria e acqua, come l’Arca di Noè. Amore sembrava un’astronave. Transitavano in lungo e in largo attraverso la sterminata mente di Dio […] Tutto era finito. Il mondo stava per cominciare» (pp.358-359).
L’immagine della astronave, a fronte di una apocalisse prossima o in corso, si sposa in Carabba al mito dell’arca, ma il senso che si rivela nell’ ultimo romanzo ribalta l’equazione: l’arca non è l’astronave spaziale in fuga dalla terra ma è la terra stessa fattasi astronave, “l’arca vivente” che avanza nei flussi interstellari, come scrive Carabba in una sorta di post scriptum o preambolo al romanzo (pubblicato il 31 dicembre 2024 sul Corriere Fiorentino). La moglie di Noè è qui una vecchia contadina ostinata nei suoi riti minimali di cura della terra; nel frattempo il tecno miliardario offre scampo su un astronave per ricominciare da capo su Marte e con il lancio del velivolo corona il disastro ecologico.
La terra arca di un’umanità capace di trasformare la deriva di un pianeta nello spazio-tempo in una preghiera, in uno struggente inno di lode, meritandosi la riconciliazione, il rinnovato patto con se stessa e con il Qualcosaltro, il patto che negli annali millenari del mito è suggellato dall’arcobaleno. Non è un caso se il mito di Prometeo e della sua punizione si salda a quello del diluvio e della nuova umanità generata dopo il diluvio grazie a Pirra e a Deucalione, il Noè greco, che proprio di Prometeo è figlio. Come scrisse Ivan Illich nell’ultimo capitolo di Descolarizzare la società: «Dalla prospettiva dell’uomo giunto sulla luna, Prometeo potrebbe riconoscere nell’azzurra e splendente Gaia il pianeta della speranza e l’arca dell’umanità. Una nuova consapevolezza del limiti della Terra e una nuova nostalgia possono oggi aprire gli occhi agli uomini». L’arca di Carabba è questa via del senso, la pazzia o il miracolo del senso in cui l’uomo narrante restituisce al creato la sacralità del creato.
Tutto questo è il frutto migliore della “cittadella” umana, come la chiamò Antoine de Saint- Exupéry, ovvero della civiltà umana. Noè, scrive l’autore, «è lo strumento di una seconda creazione: un portatore di vita, non un portatore di civiltà» (p.151). Ma senza la civiltà del cuore e della mente, così Noè sussurra al suo autore, la vita non è salva. «L’arca, con tutte quelle vite dentro, era un essere solo. Un miracolo – o un gioco di prestigio – alla deriva nello spazio profondo. E il calore tornò» (p.187).