di Vincenzo Consolo
Tento di riferire l’argomento, la trama del libro di Enzo Fileno Carabba, Jakob Pesciolini. Dico tento perchè non è facile riferire una trama ritagliata com’è nella materia labile e sfuggente dei sogni.
Per riferirne in modo, diciamo così, logico o cronologico, bisogna partire dal secondo capitolo del romanzo, quando incontriamo l’eroe, il protagonista che dà il titolo al libro, nella sua epifania. Quando Jakob ha undici anni ed è un bambino solamento anagrafico, poiché non infantile. Prima è il buio, è il vuoto. Vive e abita Jakob, al momento della rivelazione, in una casa su un’isola in mezzo al lago, con molti fratelli e nessun genitore. E’ il più piccolo e resta solo in quella casa (i fratelli vanno a caccia), e passa il tempo a leggere e a parlare con un pesciolino giallo di nome Otello. Un giorno i fratelli non tornano più a casa e quindi, pressato anche dalla fame, decide di spalancare la porta e di nascere al mondo. Entra nell’acqua, nuota ed è investito e travolto da un traghetto, il cui equipaggio, convinto di essersi imbattuto in un luccio, lo tira a bordo quasi morto. In ospedale – l’ospedale di una grande città che forse è Il Cairo – viene curato e riportato in vita. In città è quel giorno la cinquantenne (chiedo venia, anche a nome di Carabba se permette, per questa informazione anagrafica riguardante una signora) ricchissima Erika Vonvolveth, nota filantropa e menomata. Si muove per i corridoi del nosocomio la signora, «sferragliando armoniosa bracciali e diademi» in cerca di un’amica infortunatasi giocando al golf. Svegliatosi dal coma, Jakob è dunque nel suo letto ed è colto, da Erika Vonvolveth, sprofondato nella lettura di un grosso libro, un libro «fondamentale, importante». La signora ne rimane profondamente colpita, oltre che commossa. Lasciato l’ospedale, Jakob, in aereo, è portato in un’altra città, forse della Germania, nel villino in pieno centro dei Conviventi Krop, Ernest, architetto, e Tony, scrittrice, vecchi amici di Erika, e suoi nuovi genitori adottivi. I Krop fanno feste, cene, ricevono amici nella loro casa e naturalmente mostrano a tutti orgogliosi il fenomeno Jakob. La regina di questi ricchi intellettuali di buon gusto è certo Erika, «nota anche per il suo fiero progressismo e la cultura».
A scuola, dove è obbligato ad andare – alla scuola che «tende a sviluppare le facoltà normali e proprio per questo motivo tarpa le facoltà paranormali, che, ovvio, sono molto più potenti» – Jakob si innamora della compagna di banco, la grassa Adel. Con Adel, la sua Cunegonda, un giorno, in un boschetto o foresta mangiatrice, ha la sua iniziazione sessuale. («Adel era bellissima. Glielo sgusciò limpidamente e se lo introdusse. Così Jakob conobbe l’amore»). I due innamorati progettano evasioni, avventure, fughe per il mondo. Ma hanno bisogno di soldi. Jakob pensa al furto. Ai danni, naturalmente, della mecenata Vonvolveth, che tiene nascosto un malloppo, frutto di una colletta per beneficenza, in un libro. Penetrato nella infinita biblioteca, Jakob non trova il libro con dentro i soldi, ma ne trova uno antico dove legge di paesi di limoni e di ghiacciai. Il ladro Jakob, sorpreso nella biblioteca della Vonvolveth, sgozza la mecenate «senza ritegno». II nostro eroe è nato. E nel penitenziario, oltre a scontare la pena, studia, si laurea, diviene un eminente scienziato, e intanto intrattiene una fitta corrispondenza con il suo amore, con la grassa Adel. Uscito finalmente di prigione, il professore Pesciolini cerca di mettere in atto un suo grandioso progetto, meticolosamente studiato: quello di irrorare con succo di limone l’Antartide per trasformare i ghiacciai in una grande, immensa granita: un affare colossale. E quindi partono per la grande avventura, Jakob, Adel e il pilota di elicotteri Udo. Arrivano dopo giorni di navigazione alla baia delle Balene Rosse. Qui incontrano il giapponese Hideiko. Dalla base della baia il quartetto raggiunge la meta. Udo, dall’elicottero, può irrorare col limone tutti i ghiacciai. Ma le peripezie, le disavventure, le perdite, le apparizioni, i disastri fra cui la morte di Adel , qui nell’Antartide, sono tanti. Appare anche ai quattro Tommasco, il baleniere, che fa l’amore con le balene e che si rivela essere uno dei fratelli di Jakob
Nel quinto capitolo del racconto dal titolo La fine, troviamo Jakob Pesciolini dentro una capsula spaziale, in compagnia del suo pesciolino A.D. (che sta per Anno Domini), ruotante forse all’infinito intorno alla Terra. Jakob, racconta all’amato pesciolino la sua vita. Apprendiamo così che, grazie all’impresa delle granite, è diventato ricchissimo; che è stato lui ad uccidere Adel, per gelosia, che preso dai rimorsi, per la morte di Adel, desidera a sua volta morire. Vuole suicidarsi, ma non ce la fa. Assolda quindi un killer che lo uccida. Si pente, non vuole morire. Ma il killer è già arrivato a casa sua. Assolda un secondo killer che accoppi il primo. Arriva anche questo. Ma il primo e il secondo sono forse la stessa persona, la quale perciò è costretta a suicidarsi. La fine del racconto si riallaccia così all’inizio, al prologo, dal titolo Suicidio senza scampo. In cui siamo partecipi del primo tentativo non riuscito di suicidio di Jakob. Tentativo spettacolare, ad Atlantic City, dove, nelle onde fredde del mare, l’eroe avrebbe dovuto gettarsi da un elicottero in pasto ai pescecani. Rinunzia e incarica una ditta di realizzare il progetto. La ditta manda il killer, che si rivela essere il fratello… E così di seguito, di sorpresa in sorpresa, dove personaggi, fatti, le imprese centrifugate, ritornano prima o dopo, per attrazione centripeta, a ruotare in questo racconto circolare, così come ruota attorno alla Terra il protagonista Pesciolini.
Il racconto si apre con una scena, con un simbolo forte: quello di un maiale sgozzato che, calato in mare, deve attirare col suo sangue i pescecani. Il maiale è un topos espressionista che ci rimanda a certi autori tedeschi come Gunther Grass o Alexander Kluge (si potrebbe giocare, alla maniera di Carabba, sulla affermazione il maiale è un topos, utilizzando la quasi omografia di topos e topo), ma al nostro giovane autore il maiale, il sangue, il pescecane, il suicidio servono per mettere subito in campo la prima delle tante outrances, per dare il tono, la cifra al suo racconto.
Siamo, è chiaro, nel dominio del favoloso, del fantastico, dell’assurdo, del comico. E qui, proprio perché sopra ho parlato di sogno, voglio riportare un’affermazione di Bergson «L’assurdità comica è della stessa natura dei sogni»; e ancora: «Vi sono le ossessioni comiche che somigliano molto, mi sembra, alle ossessioni del sogno». E in Carabba una delle ossessioni sono i pesciolini. Si sa che il favoloso o fantastico, l’assurdo, in letteratura, ha origini lontane e nobili. Il fantastico, che nasce da una frattura con il reale, come il sogno nasce dall’assenza dal mondo dovuta al sonno, può essere di tipo logico, geometrico, strutturale, armonico, combinatorio, plausibile infine; oppure illogico, disarmonico, assurdo, divagatorio, arbitrario, infine. Il racconto fantastico di Carabba mi sembra appartenere a questa seconda specie. E’ un mondo, il suo, destrutturato, espresso abilmente e mirabilmente con una scrittura altrettanto destrutturata: una scrittura imprevedibile, continuamente inventata, che poggia sulle rotture dei nessi logici, sugli slittamenti di senso, sui contrasti, sui calembours, sui nonsensi. Gioco, questo, molto rischioso e difficilmente dominabile, riconducibile a una necessità: gioco che ha bisogno di molta accortezza perché non tracimi nell’arruffio, nel gratuito. E il nostro Carabba, spinto dalla foga giovanile e gioiosa delle sue invenzioni, sconfina qualche volta in quelle zone. Così come nella parte del racconto che si svolge nel l’Antartide, molto lunga e un po’ statica, sembra come rimasto un po’ congelato fra quei ghiacciai. Ho detto sopra di illustri antenati del racconto fantastico, antenati che in qualche modo si possono anche attribuire a Jakob Pesciolini, ma il più vicino e legittimo parente mi sembra qualcuno, di cui non so fare il nome, di quei creatori di comics o fumetti. Ma insieme ci ha fatto pensare, il racconto, di avere parentele con la transavanguardia pittorica. Cosa significa questa favola bruta, questo rifugiarsi del nostro autore, così come di tanti giovani oggi, nel fantastico, armonico o disarmonico che sia? E disistima, rifiuto, orrore o paura della realtà, o della storia? O è semplicemente incapacità oggi di rappresentare con la scrittura, col racconto, la realtà? Se il racconto realistico, quindi, ricorre, per la sua rappresentazione, alla metafora orizzontale, metafora vale a dire sviluppantesi sullo stesso piano del racconto, nel racconto fantastico, nel racconto di Carabba, mi sembra di scorgere una metafora verticale o speculare alla realtà: fra la realtà e il racconto c’è lo iato, il vallo del rifiuto. La favola assurda, brute, non è quindi che lo specchio nero del nostro attuale mondo.