Un po’ folle e un po’ sorprendente l’esordio di Enzo Fileno Carabba

di Stefano Giovanardi

Che bel pasticcio questo Jacob Pesciolini di Enzo Fileno Carabba, vincitore del premio Calvino per inediti nel 1991 e ora pubblicato da Einaudi (pagg. 200, lire 20.000). Un pasticcio che comincia dal nome del protagonista (sarà Jacob, come recitano copertina e risvolto, oppure Jakob, come appare per tutto il romanzo, senza che mai neanche un pallido indizio arrivi a giustificare il cambio di consonante?), e che prolifera vertiginosamente pagina dopo pagina, infilzando con nonchalance situazioni ed eventi tutti rigorosamente insensati.

Tanto per dare un’idea: si parte con Jakob adulto ricco che sperimenta senza successo le più lambiccate metodologie di suicidio; poi ci si imbatte in Jakob bambino adolescente, pieno di fratelli senza che esistano genitori («Non che i suoi genitori fossero morti, si ripeteva, non c’erano mai stati genitori. Era una situazione di fratellanza assoluta»), che fugge dalla sua casa senza finestre su un lago, viene travolto da un battello e anziché morire si affaccia alla vita grazie a una sinistra signora Vonvolveth, che lo fa adottare  e a suo modo lo protegge. Ma Jakob, innamorato di Adel che quando nuota pare trasformarsi in un pesce giallo uguale a quello che il bambino accudiva a casa sua, tenta un furto nella biblioteca della Vonvolveth che gli consenta di fuggire insieme alla sua amata, ma viene scoperto dalla donna e la uccide.

Dopo un ragionevole periodo di prigione ritroviamo Jakob mentre prepara l’impresa della sua vita: irrorare l’Antartide di succo di limone, in modo da ottenere ettari ed ettari di granite capaci di attirare enormi masse di degustatori. Mille peripezie, tra crepacci abissali e labirinti sotterranei dai quali si affaccia di tanto in tanto uno stupito e preoccupato popolo di nani,  e infine l’impresa si compie a prezzo della vita di Adel, con Jakob che in breve tempo diventa il re delle granite, e insieme, già lo sappiamo, un aspirante suicida. Tutto finito? Neanche per sogno: nell’ultima parte del libro ecco di nuovo il protagonista, ormai ultracentenario, che orbita intorno alla terra in una capsula spaziale con la sola compagnia di un pesciolino, questa volta nero,che a un certo punto si disancora dalla forza di gravità per precipitare, col pesciolino ormai cadavere, nel vuoto senza

fine.

Davvero un gran pasticcio, non c’è che dire (e le poche righe di cui sopra danno ovviamente solo una pallidissima idea della scatenata girandola messa su da Carabba): talvolta persino irritante, nel suo ostinarsi a non avere né capo né coda, nel suo praticare, sì, il nonsense, ma mai fino in fondo, lasciandoti sempre nell’attesa di un significato risolutore, o nel dubbio di averlo mancato. Ma pagina dopo pagina, mentre a mano a mano la confusione cresce, si fa anche strada l’impressione che, al di là dei risultati, questo di Carabba – nato, è bene ricordarlo, nel 1966 – sia un modo tutto nuovo di narrare.

Non sono riuscito a trovare, con tutta la buona volontà degli autori vicini o lontani che possano aver funzionato da modello, neanche il solito Calvino divenuto ormai padre putativo di qualsiasi esperienza letteraria abbia lontanamente a che vedere col fantastico; e invece fin quasi dall’inizio mi è sembrato di star assistendo a un cartone animato, o meglio a un videogioco: dov’è infatti che i personaggi superano ostacoli insormontabili e incredibili, subiscono gli incidenti più terribili uscendone vivi e vegeti, si muovono in ambienti affatto privi di riscontri reali, e magari muoiono e poi risorgono grazie qualche “vita” supplementare che il gioco assegna loro?

Ma a parte questi, che sarebbero in fondo dettagli secondari, ciò che colpisce in Jakob (Jacob?) Pesciolini è la totale assenza di pathos della narrazione, neanche quel pathos tutto artificiale e intellettuale che sempre si lega alle vertigini dell’assurdo: protagonista e comprimari si muovono in una dimensione assolutamente piatta, in cui l’effetto di profondità è ottenuto solo in virtù di freddi giochi prospettici; e come nel videogioco la tensione emotiva si stabilisce non tra personaggio e personaggio, ma tra il giocatore e il computer che quei personaggi gestisce, così si ha qui l’impressione che l’unica autentica quota di pathos scaturisca dal rapporto tra Carabba e la sua scrittura, dai tentativi dell’autore di conferirle un appeal narrativo da manuale e il loro voluto e controllato naufragio nell’ arresa e nemmen troppo sogghignante esibizione dell’ovvio (ad esempio: «La cena terminò e venne il dopo cena»; oppure: «Ogni bagno ha un inizio e una fine. Così quello”; o ancora: – “L’appetito è una cosa che la si può avere in più d’uno. Adel aveva appetito. Stavano mangiando»).

Tra precipizi, farfalle carnivore, vapori tossici e mille altre diavolerie del genere, l’unica vera insidia per i personaggi, l’unico abisso che costantemente resta spalancato davanti a loro è quello della banalità assoluta, totale, metafisica che segna il loro universo, non meno quanto segni l’universo televisivo e telematico nel quale Carabba per virtù di anagrafe, è cresciuto. Allora questo libro d’esordio può ben divenire il primo romanzo della prima generazione totalmente “multimediale” che si sia affacciata alle soglie della cultura italiana.

E’ un libro, occorre dirlo?, ingenuo e irrisolto, con numerose défaillances di tenuta e di scrittura ma anche con improvvise impennate di fantasia e di stile che fanno ben sperare. Ma aldilà di tutto, è un libro davvero “marziano”, proveniente da una “civiltà” ancora aliena ai più, che sarà però molto probabilmente la pacificata civiltà di domani. Va dunque repressa quella punta d’insofferenza che ogni tanto inevitabilmente si affaccia. Jakob Pesciolini ci sta in fondo dicendo che la letteratura sopravviverà sempre, costi quel che costi, nasca da quel che nasca; e che sempre farà valere, magari dagli abissi del sottosuolo, o dalla guglia più alta del più improbabile monumento, i suoi esorcismi cifrati contro il trionfo delle tenebre.

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