di Fulvio Panzeri
Il panorama della nuova narrativa italiana si presenta all’insegna di una evidente incertezza, soprattutto di riferimenti e di possibili connotazioni critiche: il giudizio è ancora basato sul criterio della scoperta dello scrittore come fenomeno o non sul lalo più impervio della scrittura come capacità di decifrazione del mondo. Proprio questo ulteriore e diverso punto di vista offre la possibilità di abbandonare le anguste e mai plausibili graduatorie di merito, per entrare nel più complesso discorso relativo alla formulazione di panorami di identificazione.
È chiaro infatti che non si può pretendere, soprattutto, in un itinerario ancora in fieri com’è quello che sta delineando la nuova narrativa Italiana, di trovare improvvisamente il genio dietro ad ogni angolo di casa editrice. Pur se dotati di gran talento, pur se abilissimi e piacevoli nel condurre le loro storie, i narratori che si affacciano alla letteratura in questo inizio d’anni Novanta non possono essere celebrati e Innalzati come autori di capolavori indimenticabili. Com’è avvenuto per la generazione di scrittori che ha esordito negli anni Ottanta si potrà quindi parlare di libri importanti, di prove generazionali, di buoni romanzi, di avventure inconsuete, di itinerari narrativi tutt’altro che trascurabili, ma non è possibile rintracciare il capolavoro» tout court, il libro assoluto che segna una tappa fondamentale per la nostra letteratura. Non per questo ci si trova davanti a un panorama distruttivo di ciò che sta avvenendo nelle officine letterarie dei nuovi scrittori italiani E’ piuttosto la critica ad avere il punto debole nella sua non progettualità, nel suo abbandonarsi al colpo di scena, Identificato nel clamore delle autocelebrazioni o delle stroncature feroci e, a volte, gratuite.
In tal modo si perde di vista quello che è il vero tessuto narrativo che oggi i giovani scrittori tentano di mettere in atto, per giocare al solito e un po’ frusto rito delle graduatorie di merito. E chiaro: vi sono libri riusciti ed altri falliti, tentativi ambiziosi cui corrispondono risultati scialbi. E’ innegabile che il critico metta in luce le difformità tra le intenzioni dell’autore e le effettive riuscite; non è plausibile che si ponga come una sorta di giudice o di arbitro, indiscutibile e indiscusso. In un ruolo da cattedratico della messinscena oratoria sla in positivo sia In negativo.
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Sempre in tema d’esordio, è da tener d’occhio un autore questa volta decisamente giovane (Picca è di una generazione precedente, essendo nato nel 1957): parliamo di Enzo Fileno Carabba, fiorentino, classe 1966, vincitore del Premio Calvino per gli inediti nel 1991 con “Jacob Pesciolini”, ora pubblicato da Einaudi. Per freschezza d’inventiva; per il piglio veloce, per la consapevolezza della controstoria, praticata, comunque all’ interno di una pratica dell’artificio della narrazione intuita come piacere, Carabba sembra tornare, pur con esiti decisamente diversi, alle tracce del primo Andrea De Carlo, scoperto e lanciato dallo stesso Calvino.
Carabba convince soprattutto per l’abilità di tessitore di storie: il suo romanzo è un contenitore d’avventure, vissute per frammenti, all’insegna della velocità e del colpo di scena, in un ritmo che segue lo scorrere disordinato dello schermo televisivo guardato da un telecomando e che adotta Il fumetto come modello e come tecnica narrativa che alla realtà privilegia l’immaginario, al realismo sostituisce il fantastico, in una corsa forsennata che modifica lo strutture del tempo e dello spazio, in virtù di una parola, il cui potere è appunto quello della finzione vissuta come incastro di tutto l’immaginario possibile.
Carabba, in questo vorticoso inseguimento di un personaggio che è poi Jacob Pesciolini, dai natali incerti, un po’ umano, un po’ creatura misteriosa, un po’ bambino perfetto, un po’ mascalzone e addirittura teppista, e poi re delle granite al limone, segue un proprio filo narrativo che non è rappresentato dal corso temporale della storia, bensì dal corso dell’immaginario che ordina e sconvolge continuamente le scene, creando un racconto via via surreale, grottesco, patetico, in cui l’orrore e la devastazione si impongono nei toni, nei colori e nelle forme che ha assunto iI fumetto, interpretando l’immaginario giovanile degli anni Ottanta. E’ proprio questo a sorprendere nel libro di Carabba: la mimesi tra scritture e suggestioni. Ed è una linea di riferimento non trascurabile per un’indagine critica: sempre di più, negli anni Novanta, la scrittura diventa visiva e Carabba – pur senza aver scritto il capolavoro cha tutti cercano… – lo dimostra, soprattutto nella scena iniziale del maiale che cala in acqua, morente da un elicottero e poi via via trovando i momenti più felici nel furto in biblioteca vissuto, a mezz’aria, come un Peter Pan, per nulla magico, mentre “fuori la città era completamente coperta da pezzi di nani e di insetti, che erano scesi dal cielo. Un manto silenzioso”. E ancora. nella caccia agli insetti, raccontata in “La foresta mangiatrice” che apre la parte seconda: una scorribanda di colpi di scena tra vermuth, carta igienica, devasto, gnomi: una sequenza nera vissuta all’insegna della più imbarazzante ingenuità.