E l’Antartide diventa una granita al limon

di Giorgio Bertone

Non è vero che i premi letterari siano sempre la bella vetrina che le grandi case editrici si disputano a turno. C’è premio e premio. Anche se non famoso, anche se dotato di poche lire, il “Premio Calvino”, promosso dall’Indice del libro, riesce nel suo intento di segnalare di volta in volta testi, saggi o romanzi inediti di qualche forza e novità.

Nel 1991 ha fatto centro con un’opera prima curiosa fin dal titolo, “Jacob Pesciolini”, per mano di un giovanissimo, Enzo Fileno Carabba, classe ’66:  ora edito da Einaudi.

Ancor più strano e straordinario il racconto. In un andirivieni di tempi, luoghi e di tagli narrativi, scorre la biografia o meglio, le mirabolanti metamorfosi di Jakob (con K dentro il romanzo) Pesciolini, uno strambo personaggio, se ancora si può usare questo termine per una funzione letteraria, che qui è solo il portatore di una voce linguistica e di qualche riconoscibile sequenza di dialoghi e azioni.

Insomma, tanto per indicare la traccia ridotta all’osso: chi detiene quel nome così buffo è dapprima un bambino orfano, adottato poi da una coppia, i conviventi Krop, “di cui il maschio (Ernst) è un architetto il quale dipinge alcune volte; e la femmina (Tony)  scrive alcuni libri”, SI, non c’è errore: Fileno Carabba scrive proprio così. In una sorta di straniamento verbale che fa il verso a un ipotetico basic italian, condito a volte con stili più aulici, parola ricercate, sempre piegati al giro Ironico e fredduristico della frase, risolti  infine in una sorta di tic comico-parodistico ben dentro lo regioni del grottesco e dell’assurdo. Qualcosa – diciamolo subito – dl oggettivamente ed efficacemente originale. Specie nel panorama Italiano, che se ha avuto un Gadda e i suoi nipotini, non ha mai concesso molto al fantastico e all’assurdo di marca anglosassone.

Jakob va a scuola, s’innamora di Adel. Piú cresce, più s’infittiscono le sue allucinate avventure, sempre sul filo di una dolceamara leggerezza di deliri e di raptus. Compresa l’apparizione (donna reale o Madonna che rivela un destino?) di “una donna radiosa in un chilometrico manto azzurro, contornata di deltaplanisti plaudenti come le stelle del mattino”.

Dopo aver massacrato diciassette gatti, dà l’assalto a una biblioteca, munito, un po’ come l’Uomo Ragno di pistola lancia-rampini che gli consente un free climbing sulle pareti del palazzo. Qui trova un Iibro che gli insinua una storia, non senza sbarazzarsi dell’ingombrante Vonvolveth: la storia che farà sua, dopo l’imprigionamento di cul relazionano le lettere ad Adel.

Storia  e idea sono poi queste: irrorare l’Antartide con succo di limone a ottenere una enorme, megagalattica granita per la delizia dei milioni di consumatori e le sue tasche. Perché l’entrata nel continente commestibile sarebbe stata a pagamento, ovvio.

Jakob, Adel, un elicotterista e altri personaggi, o riduzioni dei medesimi, s’avviano nel sesto continente. L’elicottero irrora succo di limone, le slitte eruttano Iimoni spremuti da due proboscidi artificiali. Senonché il progetto subisce un ridimensionamento e il gruppetto s’infila in un labirinto sotterraneo di ghiaccio che assomiglia a un’enorme caramella. Un finale disastroso pone termine all’impresa. Tutto precipita, come si dice della maionese: e finisce in acqua e cubetti di ghiaccio. Jakob Pesciolini si ritrova a girare attorno alla Terra insieme con A. d. (cioè Anno domini), un pesciolino. L’ultimo astronauta con la Nebulosa del Topo alle spalle contempla il pianeta, la Terra: “Non la trovi ingrassata? E’ gonfia perché è già un cadavere. Galleggia nell’idrogeno come un cadavere che faccia il morto”.

Chiaro che siamo dentro uno di quei racconti in cui la trama non esaurisce neppur uno del sensi del libro. Ciò che stupisce il lettore – di sconcerto a d’ammirazione – è innanzitutto il linguaggio così libero, elementare, infantile (programmaticamente infantile, s’intende) e ludico. Lieve, come è lieve una qualsiasi delle sentenze-descrizioni, presa a caso: “come il cuore degli uomini sia fatto per ospitare l’idea della neve e della sue cavalcalture leggere”. O le similitudini giocate in contropiede sui luoghi comuni. Si deve dire che il cielo era azzurro? Azzurro come? Ecco: “Il cielo ora azzurro come un principe”. Di queste invenzioni, trovate pirotecniche Il romanzo breve è infittito come l’aiuola dl un giardino botanico. Con un’aria, tutt’intorno, di stralunato e demenziale, al limite del geniale.

Ma non si pensi a una superficie tutta squilli di colori e trovatine. A palparlo e ripalparlo, come si fa con le stoffe, il tessuto linguistico-narrativo ha il suo spessore. Intanto, nella trasformazione di Jakob in una sorta di buffo-cristo che, prima di ascendere al cielo, finisce nelle viscera della terra e nei recessi tenebrosi e immondi: una sorta di Ofwlq di Calvino ma di gran lunga meno raziocinante e discorsivo.

Né sfuggono ai polpastrelli del lettore certe ossessioni. In testa la città, ormai ridotta a un ammasso di materia informe tra organica e inorganica: “una gora bluastra al neon – la città, I vapori, la città, fumante e semiliquida, si muoveva come un’ameba in cerca di cibo”. E i diversi paesaggi comico-allucinati, dove la parola paesaggio così spesso ripetuta dichiara appunto I’inesistenza o la deflagrazione di un paesaggio reale o riconoscibile.

Tanto virtuosismo, tanta bravura non ha una pecca. Tutto fila senza un’incoerenza. La giovane scrittura nasce già, come certi prodotti ortofrutticoli odierni, perfettamente  modellata e irreprensibile.

 

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