Tra romanzo e fumetto, un picaresco di fine millennio

di Silvia Capecchi

Il romanzo di Enzo Fileno Carabba (Jacob Pesciolini, Torino, Einaudi, 1992, pp. 200, L. 20.000) si configura, a circa un anno dalla sua uscita, quale opera di originalità indubbia e sicuramente outsider, pur se di difficile collocazione e definizione. Un dato incontrovertibile che gioca a favore dell’interesse suscitato da questa opera prima, già impostasi all’attenzione della critica militante, è la capacità di saper catturare la fantasia dei lettori elaborando sin dall’esordio una studiatissima strategia di coinvolgimento: un coinvolgimento a piú livelli, che agisce solleticando immaginari molteplici, elementari e complessi, moderni e inattuali.

La trama non segue uno svolgimento lineare, consona com’è alla ritmicità franta, tritata e perentoria della scrittura, vera fresca novità del romanzo. « Fort Leyrs: onde fredde e lunghe strisciano verso il sole. Il sole era un cadavere giallo: io accidentaccio invece no. Fu il primo tentativo ». Il prologo introduce in medias res attraverso la singolare descrizione del primo di una lunga serie di cervellotici tentativi di suicidio, destinati allo scacco. Si tratta tuttavia di una sorta di count down (letteralmente, la numerazione dei paragrafi procede a ritroso da 10 a 0) che si apre sulla narrazione della storia di Jacob, infante di non precisata origine, che abitava in una leggendaria « casa con molti fratelli e nessun genitore >> ove, quale « interlocutore prediletto», si poteva ammirare un pesciolino giallo dentro una vasca di vetro. Un irrefrenabile desiderio per la caccia spinge il protagonista a intraprendere un viaggio senza meta precisa. Dopo varie peripezie Jacob, finito in ospedale, s’imbatte in una sinistra figura, Erika Vonvolveth, « nota filantropa » in apparenza, « strega » invasata in realtà, che s’interessa alle sorti di Jacob sino a darlo in adozione ai coniugi Krop. Iniziano le costrizioni legate al nuovo ruolo filiale, prima ignote al liberissimo Jacob, la scuola in primis. grave minaccia per l’amato esercizio di virtú « paranormali » e telepatiche, ma anche teatro di un incontro — quello con Adel — che risulterà fatale, segnando il destino di Jacob sino a giustificarne i tentati suicidi prima, l’esilio cosmico poi. Da ora in avanti Adel colmerà lo spazio visivo di Jacob con la sua ipnotizzante fisiognomica (destinata a diventare immagine ossessiva del senso di colpa): il labbro sporgente sul volto largo, la « pelle idratatissima » da gocce di sangue unite a rivoli di sudore « come fosse un Gesú nostro salvatore ». Insieme intraprendono strane peregrinazioni in cerca di animali notturni, insetti, falene. Fiabescamente accolti da una boscosità profonda, assistono alla prodigiosa metamorfosi del paesaggio; e Adel stessa si metamorfizza, appare e scompare alla vista assieme a un ridondante popolo di gnomi, finché i due, di nuovo in marcia, avanzano circondati da uno spettacolo di innumerevoli « farfalle notticole », mentre su tutto incombe « il fruscio delle ali in contatto, come una promessa di dolore ». Ma Jacob, ben presto assalito da una forte nostalgia della casa e dei fratelli, uccide la Volvolveth per impossessarsi del denaro necessario all’impresa di un “ritorno” destinato a permanere inesaudito. In prigione, si laurea coltivando sogni imprenditoriali. Una volta evaso, si accinge meticolosamente all’impresa di « irrorare l’Antartide con succo di limone », per ottenerne un immenso ghiacciolo che lo avrebbe reso ricchissimo. Qui Jacob, mostrando eccellenti doti di stratega del marketing, affina le proprie qualità manageriali e organizzative valutando le forze in gioco, facendo circostanziate richieste di sfruttamento del territorio.

Ma l’impresa si rivela ardua: è stanco, e continua a incappare in numerose disavventure, tanto da giungere alla risoluzione di « ridimensionare il progetto»…

Ogni logica narrativa appare sopraffatta da un’ipertrofia immaginifica assolutamente irreggimentabile. Lungo il travagliato percorso degli eventi si rintracciano comunque alcuni temi costanti, in grado, forse. di orientare la lettura: non di veri temi si tratta, peraltro, quanto di musicali refrains che nel loro rincorrersi sulla pagina non comunicano di fatto alcunché di rassicurante. Riescono tuttavia a dirci in segreto qualcosa dell’autore. Presenza dominante è quella dei pesci, suscettibile di figurare metaforicamente l’ossessione amorosa di Jacob e di costituirsi in mito personale di Carabba. Il bestiario ideale di Jacob alberga in un acquario: le creature multicolori, in tutta la loro vivace varietà multiforme (« nudibranchi oziosi », «crostacei appariscenti », « anellidi » dalla soddisfatta aria “primitiva” ), sono i veri protagonisti del romanzo. È una presenza metamorfica, cangiante, che ci azzarderemmo volentieri a definire tramite privilegiato tra fisico e metafisico, se la venatura ironico-grottesca della narrazione non ci costringesse invece a sorvegliare sconfinamenti in territori trascendenti, peraltro autorizzati dall’opzione dell’autore per un racconto fantastico di cui sembra rispettare alcune fra le leggi piú tipiche: gusto esibito per il paradosso, visionarietà estremizzata, suspense, impresa straordinaria da realizzare con abnegazione e, soprattutto, il forte irrazionalismo, la logica letteralmente rovesciata che domina gli eventi e la narrazione. Di quale“ fantastico” si tratta, in realtà? Carabba pare inaugurare un genere tanto nuovo quanto ibrido, ove immaginario fumettistico e fiabesco, civiltà multimediale, realismo combinatorio e telematico dei videogames (come è stato facilmente osservato) sembrano volersi ritagliare di prepotenza uno spazio nelle lettere, per accaparrarsi una dignità — letteraria appunto — che finora non hanno conquistato. Il fatto è che la letteratura fantastica di Carabba, cosí apertamente artificiosa o virtuale, nella gratuità anch’essa evidente della trama, nell’ipotetica ripetibilità ad infinitum delle avventure, finisce suo malgrado per coniugarsi con un doloroso versante dell’esistenzialismo contemporaneo: quello che condanna ad agitarsi a vuoto, a un movimento e a una intraprendenza di fatto immotivata, priva di finalità e di incidenza sul reale. E ciò non significa abbandonarsi a definizioni e a formule di comodo, ma tentare di comprendere certi squilibri del romanzo, in bilico tra una resa espressiva davvero felice e insistenze stilistiche e tematiche prevedibili nella loro meccanicità: in definitiva, si dà un senso alla sua forte, emblematica contraddittorietà, al funambolismo continuo di serio e faceto, in equilibrio volutamente precario tra esasperato modernismo e primordiale istintualità (« qualcosa di antico e di barbaro »). E l’equilibrio non si sbilancia: rimarrà sempre il dubbio, a lettura ultimata, se vinca la frivolezza o la serietà, con una propensione tuttavia a individuare il profondo dietro la superficie. Si pensi ai ricorrenti richiami biblici e veterotestamentari, a que! «sottile brivido dell’ascesi » che induce il protagonista a paventare meccanismi di trasgressione e di punizione suprema — l’eresia e l’Inferno – come a evocare un Dio assolutore o un’improbabile Madonna costantemente circondata da sciami di «deltaplanisti>> che assecondano il suo atteggiarsi a soubrette d’avanspettacolo. Ma, ancora, a giocare un ruolo principe è sicuramente la metamorfosi, ossessione ed espediente narrativo insieme. In quanto permette ai personaggi di rifarsi presenti – di “ risorgere sotto mentite spoglie — anche dopo una morte accertata. E’ cosi che l’amata Adel trasferisce metamorficamente i propri connotati (« un viso leggermente largo » e di tipo « orientale ». « Il labbro dabbasso, ben rotondo e colorito, era gonfio e levigato ») nel pesciolino A.d. (sigla, si noti bene, di Anno Domini: « una faccia larga per essere piccola », « il suo labbro inferiore sporgeva e splendeva nella notte dei tempi»), ultimo compagno di sventure, oggetto privilegiato di un transfert sentimentale tanto esibito da sembrare privo di effettiva spinta emotiva. Ma qui si tocca un punto cruciale del romanzo: la mancanza di motivazione, unico criterio vigente essendo quello dettato da una stralunata logica onirica, dove gli eventi. quasi sempre « cose strane », semplicemente ” accadono “. Inevitabilmente votato allo scacco ogni tentativo di riportare ordine all’interno della trama degli accadimenti, di motivare le « azioni » pure e immotivate, se il destino dell’eroe è di andare « alla deriva », un destino on the road — o meglio « orbitale » – come unica verità, solo dato certo eloquentemente incaricato di porsi a perfetta sigla del racconto: « La verità è che ci siamo disancorati di nuovo. La massa non ci tiene piú. Affondiamo nel vuoto ». Domina dunque non una rigorosa strutturazione dei contenuti, ma un avventuroso di nuovo tipo, del tutto sliricato: un picaresco di fine millennio, falsamente tecnologico o, per dirla con parola abusata, post-moderno, pronto a riciclarsi continuamente come a riproporre le proprie non-motivazioni nella loro specifica veste di surrogati di una legge morale inesistente.

Il racconto presenta una struttura circolare: inizio e fine si richiamano in stretta connessione. Le vicende del prologo sono l’anticipazione di una risoluzione al suicidio che fornisce una prima conclusione del romanzo. Il prologo, assieme all’autentico explicit della vicenda, assai spostato cronologicamente – quello che presenta ellitticamente la «soluzione finale », l’esilio in una sorta di eterno limbo orbitale – disegna la cornice della narrazione, che si presenta, al suo interno, caotica all’estremo e intenzionalmente scriteriata. I nuclei brucianti del racconto sono proprio da rintracciare nella cornice, i tempi fondamentali nell’inizio e nella fine: la parte che sta fra i due poli si conclude sull’episodio centrale della morte-suicidio-omicidio, sul gesto sacrificale di Adel. Per il resto, Jacob è protagonista falsamente attivo della narrazione, un personaggio-teatro, un luogo in cui si avvicendano allucinazioni o sogni, uno schermo o meglio un cinema (« è come andare al cinema dentro me stesso ») ove tutto è possibile, ove ogni oggetto, evento, immagine, necessitato da motivazioni insondabili, pare godere di uno stesso diritto di cittadinanza. Non si distingue tra sogno e realtà, tra interno ed esterno, episodio reale o immaginato; e la narrazione stessa sembra mettere in pratica il « rimedio » proposto da Jacob per salvare il compagno morente Udo: quello di agire «nel punto dove incontriamo l’esterno. Né dentro di noi ne fuori di noi », ma precisamente « sul confine tra il dentro e il fuori ».

Le immagini (di scarsa consistenza realistica e meglio interpretabili quali deliri mentali di una percettività estremizzata e portentosa), piú che rivestirsi di una specifica funzionalità si significano soltanto in virtú della loro fitta ricorrenza, liberamente articolata, giusta l’intenzione romanzesca di trascrizione — mimesi passiva, onirica e straniata, stranita, si direbbe — di « memorabili viaggi ». Non si tratta qui del sofferto resoconto di un’ossessiva e sinistra peregrinazione, ma del vagabondaggio interno a una realtà virtuale – piú che fantastica — attraversabile senza angoscia perché già conosciuta in tutto il suo carattere di simulazione pura. Il ricorrere identico delle immagini, lungi dal farle “cifre ” private, segni interiori (è azzeccato il rilievo già mosso al romanzo circa l’assoluta mancanza di pathos, la dimensione piatta del racconto), attesta altresì un vertiginoso e irreversibile allontanamento dall’io, un appiattimento della dimensione lirico-affettiva, affatto compensato, come invece potrebbe sembrare, da quelle dichiarazioni“ amorose” che Jacob indifferentemente distribuisce tra cose, persone (o cose-persone, che qui è lo stesso, giusta un’assoluta intercambiabilità di attributi), gesti, attitudini, funzioni fisiologiche, istinti elementari (Jacob ama tantissimo Adel e Otello, il pesce dell’infanzia, A.d., gli acquari; ma ama altrettanto l’atto di cibarsi, di uccidere per il gusto sadico di esercitare una violenza tanto fine a se stessa — e a suo modo innocente – quanto intensamente godibile).

Eppure qualcosa sembra resistere alla generale orizzontalità del racconto. All’interno di un testo ove tutto appare privo di funzionalità e di autenticità sentimentale, restano le ossessioni, i ricordi colpevoli della vita precedente che si legano a un forte sospetto di inesistenza (« La gente, esisteva la gente? »), le metafore cristologiche cui attribuire un significato. Che funzione rivestono le ricorrenti presenze acquatiche, le sparse allusioni bibliche, le improvvise epifanie celesti? Adel, compagna dei memorabili viaggi di Jacob, è forse un dio in incognito, certo una vittima sacrificale, riproiettata dalla legge della metamorfosi universale e dal senso di colpa di Jacob nel pesciolino A.d.?

Ma se i pesci di Jacob sono da identificarsi col Pesce, col Cristo Salvatore di sacrale memoria, si tratta di una presenza che non ha funzione salvifica, se prestiamo fede all’epilogo del racconto che vede Jacob (« eremita rimbambito ») ultracentenario disperso, alla deriva in un abisso galattico privo di confini: la condanna è confermata, il peccato di Jacob non trova riscatto né redenzione, nonostante il sacrificio di Adel. La condizione di « fratellanza assoluta » che caratterizza la famiglia dell’eroe sembra rivelarsi – tradendo, nostro malgrado, il proposito di non sconfinare nel trascendente – fratellanza nell’abbandono del Padre e nel conseguente, immodificabile disancoraggio, insieme fisico e spirituale. Una profondità insospettata pare celarsi allora sotto la superficie di un racconto tanto caotico e — forse volutamente — ingenuo, quanto di sicura, scanzonata e giovane anticonvenzionalità espressiva.

Posted in: Recensioni